[Roma 2016] Quando Studio Ghibli ti scrive per fare un film con te. La storia di La Tartaruga Rossa
Come Michael Dudok de Wit sia arrivato a realizzare il suo primo lungometraggio, La Tartaruga Rossa, con il contributo dello Studio Ghibli
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Ma quanto hanno contribuito dal Ghibli?
Come mai inizialmente l’idea partiva già con pochi dialoghi?
MDDW: “Fin dai corti che ho fatto mi sono sempre sentito a mio agio con il linguaggio iconico. Con un film pensavo sarebbe stato bello avere poco dialogo, solo nei momenti centrali e basta. Del resto all’inizio il personaggio è solo, quindi non serve che parli, poi però quando arrivano altri pensavo dovesse farlo, pensavo ce ne fosse bisogno. Ma alla fine non suonava bene. Il punto è che il film non ti dà riferimenti temporali o nazionali, il personaggio potrebbe venire da ovunque e in qualunque epoca, ed è bello così. Quando mettevamo i dialoghi di prova e questi dovevano essere in una lingua specifica, subito lo connotavano, ti facevano pensare “Ah ma allora è un inglese!” o “Ah! Ma allora è un francese!”.
Anche quando arrivavano altri animatori e i background artist ad aiutarci gli mostravo il work in progress tramite animatics [versione in bozza dell’animazione finale ndr] chiedendo loro pareri e consigli anche sull’assenza di dialogo. Molti confessavano di non aver nemmeno notato che non si parlasse mai, il che era il nostro obiettivo: farlo percepire come naturale”.
Però c’è un momento in cui il protagonista emette un suono, urla…
MDDW: “Sì, è perché sta cercando un’altra persona. A lungo abbiamo pensato se fargli urlare una parola o solo un suono. Però di nuovo quando gli mettevamo in bocca una parola c’era quello shock di attribuirgli una nazionalità di colpo”.
Immagino che poi quest’idea si sia sempre sposata bene con il minimalismo visivo del film...
MDDW: “Agli animatori dicevo sempre di cercare di rimanere semplici, guardavo al Giappone ma non ci sono possibili paragoni, i giapponesi sono molto più bravi di noi ad arrivare alla semplicità e alla purezza, sanno come usare gli spazi vuoti molto meglio di noi. Anche Hayao Miyazaki, che fa film complessi con molte cose che avvengono contemporaneamente, non perde mai la semplicità, che è molto difficile. Certo l’arte orientale mi è stata di grande influenza ma ci sono ottimi artisti del disegno minimale anche in Europa. Sempé e Moebius ad esempio, sono semplici e bellissimi”.
Ad ogni modo anche la trama sembra girare intorno all’orbita della cultura asiatica, ha delle qualità spiritualiste benché parta come una storia d’avventura.
MDDW: “Quello sono io. Se non riesco ad arrivare a questo con la mia creatività allora meglio non fare un lavoro creativo per niente. Se devo fare un film non voglio solo intrattenere, benché rispetti molto chi intrattiene e basta. Se devo passare più di un anno su un progetto voglio una dimensione più spirituale, che è una parola che solitamente non uso, perché per molti non vuol dire nulla, quindi alla fine non so come chiamarlo il mio approccio. Solitamente dico “senza tempo”, cercare di fare qualcosa al di là del tempo, che rimane con te a lungo e celebra quel momento che abbiamo tutti nella nostra vita, quando sei completamente immerso nel presente, vivere senza pensare al passato o al futuro”.
Secondo lei è un film buddista?
MDDW: “No. Per esserlo dovrebbe essere più concentrato proprio sul Buddha o sulla meditazione. Ho una grande passione per la prospettiva buddista, in quel senso è ispirato dal buddismo ma non è un film religioso”.