[Roma 2016] Quando Studio Ghibli ti scrive per fare un film con te. La storia di La Tartaruga Rossa

Come Michael Dudok de Wit sia arrivato a realizzare il suo primo lungometraggio, La Tartaruga Rossa, con il contributo dello Studio Ghibli

Critico e giornalista cinematografico


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Se pensate che la storia di La Tartaruga Rossa sia particolare, originale e commovente è solo perché non avete sentito quella di Michael Dudok de Wit. Animatore olandese appassionatissimo di cultura nipponica sin da ragazzo, da quando vide I Sette Samurai al cinema, il regista di questo lungometraggio animato si è formato sul disegno giapponese e la ceramica sudcoreana, su quel tipo di arte e di idea minimalista dello spazio e della messa in scena. Dopo aver prodotto e distribuito alcuni corti ispirati proprio a quel tipo di design, riceve una lettera dello Studio Ghibli, con cui non aveva mai avuto rapporti ma che chiaramente ammirava come punta massima della cultura che lo ha sempre appassionato, in cui gli comunicano di essersi innamorato di uno dei suoi corti e di voler fare con lui il suo primo lungometraggio, qualunque esso sia.

Da qui nasce La Tartaruga Rossa, idea minimalista che al Ghibli è subito piaciuta, vagamente parente della filosofia buddista e di certo universale per la sua assenza di dialoghi o riferimenti ad un tempo o una cultura in particolare.

Ma quanto hanno contribuito dal Ghibli?

MICHAEL DUDOK DE WIT: “Poco. Sono stati dei partner molto rispettosi, ero io semmai a chiedergli un confronto sui molti dubbi che avevamo. Una cosa ad esempio su cui sono stati determinanti è l’assenza di dialogo. Inizialmente volevamo usarlo poco, solo quando strettamente indispensabile ma loro mi dissero che secondo loro poteva venire meglio senza, che il pubblico avrebbe capito lo stesso, bastava far recitare bene i personaggi ed essere chiaro. La cosa mi ha esaltato e subito ci ho voluto provare”.

Come mai inizialmente l’idea partiva già con pochi dialoghi?

MDDW: “Fin dai corti che ho fatto mi sono sempre sentito a mio agio con il linguaggio iconico. Con un film pensavo sarebbe stato bello avere poco dialogo, solo nei momenti centrali e basta. Del resto all’inizio il personaggio è solo, quindi non serve che parli, poi però quando arrivano altri pensavo dovesse farlo, pensavo ce ne fosse bisogno. Ma alla fine non suonava bene. Il punto è che il film non ti dà riferimenti temporali o nazionali, il personaggio potrebbe venire da ovunque e in qualunque epoca, ed è bello così. Quando mettevamo i dialoghi di prova e questi dovevano essere in una lingua specifica, subito lo connotavano, ti facevano pensare “Ah ma allora è un inglese!” o “Ah! Ma allora è un francese!”.
Anche quando arrivavano altri animatori e i background artist ad aiutarci gli mostravo il work in progress tramite animatics [versione in bozza dell’animazione finale ndr] chiedendo loro pareri e consigli anche sull’assenza di dialogo. Molti confessavano di non aver nemmeno notato che non si parlasse mai, il che era il nostro obiettivo: farlo percepire come naturale”.

Però c’è un momento in cui il protagonista emette un suono, urla…

MDDW: “Sì, è perché sta cercando un’altra persona. A lungo abbiamo pensato se fargli urlare una parola o solo un suono. Però di nuovo quando gli mettevamo in bocca una parola c’era quello shock di attribuirgli una nazionalità di colpo”.

Immagino che poi quest’idea si sia sempre sposata bene con il minimalismo visivo del film...

MDDW: “Agli animatori dicevo sempre di cercare di rimanere semplici, guardavo al Giappone ma non ci sono possibili paragoni, i giapponesi sono molto più bravi di noi ad arrivare alla semplicità e alla purezza, sanno come usare gli spazi vuoti molto meglio di noi. Anche Hayao Miyazaki, che fa film complessi con molte cose che avvengono contemporaneamente, non perde mai la semplicità, che è molto difficile. Certo l’arte orientale mi è stata di grande influenza ma ci sono ottimi artisti del disegno minimale anche in Europa. Sempé e Moebius ad esempio, sono semplici e bellissimi”.

Ad ogni modo anche la trama sembra girare intorno all’orbita della cultura asiatica, ha delle qualità spiritualiste benché parta come una storia d’avventura.

MDDW: “Quello sono io. Se non riesco ad arrivare a questo con la mia creatività allora meglio non fare un lavoro creativo per niente. Se devo fare un film non voglio solo intrattenere, benché rispetti molto chi intrattiene e basta. Se devo passare più di un anno su un progetto voglio una dimensione più spirituale, che è una parola che solitamente non uso, perché per molti non vuol dire nulla, quindi alla fine non so come chiamarlo il mio approccio. Solitamente dico “senza tempo”, cercare di fare qualcosa al di là del tempo, che rimane con te a lungo e celebra quel momento che abbiamo tutti nella nostra vita, quando sei completamente immerso nel presente, vivere senza pensare al passato o al futuro”.

Secondo lei è un film buddista?

MDDW: “No. Per esserlo dovrebbe essere più concentrato proprio sul Buddha o sulla meditazione. Ho una grande passione per la prospettiva buddista, in quel senso è ispirato dal buddismo ma non è un film religioso”.

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