Roberto Proia punta tutto su Il ragazzo dai pantaloni rosa: "Se non farà 3 milioni avrò fallito"
Roberto Proia si racconta a BadTaste: da quando scartò Jeeg Robot all'amore Terry Gilliam, alla passione per la storia di Andrea Spezzacatena
Cominciamo oggi un ciclo di interviste con alcuni dei protagonisti del mondo industry dentro il cinema italiano. E il primo della lista è un signore eclettico di nome Roberto Proia, Direttore Area Cinema e Produzione Eagle Pictures. Abbiamo cercato di capire con Proia, classe 1969, il suo rapporto con il lavoro partendo dagli inizi. Quando il cinema non era ancora una professione. Prima che la sua lunga e variegata carriera lo portasse in Nexo, Moviemax, Notorious e ora Eagle Pictures.
Molto presto, oddio adesso so già che il mio racconto sembrerà il libro Cuore. Ho passato preadolescenza e adolescenza da solo. Ma non perché fossi antipatico anzi il contrario: ero troppo socievole. Venivo da Napoli e a 11 anni ci trasferiamo con la famiglia in Brianza - vicino ad Arcore a Velate Milanese - e per me crolla tutto. Dagli 11 ai 18 anni non riesco a farmi dei nuovi amici e quindi l'unica compagnia che avevo era il cinema. A Monza all'epoca, qualcuno non ci crederà, c'erano 9 cinema e io passavo tutti i miei sabati e le mie domeniche da solo in sala. Mi sono nutrito di questa roba qua. Ma, contemporaneamente, comincio a nutrire una passione per il dietro le quinte. Non avendo tanti soldi io mi nutrivo di incassi ma avevo studiato un piano. Andavo a Piazza della Scala dove c'era uno storico giornalaio che aveva Variety (già all'epoca il settimanale americano più importante circa box office, contratti e industry, N.d.R.) che però arrivava sempre una settimana dopo la sua uscita in Usa. Visto che costava troppo, tipo 12 mila lire dell'epoca, mi ero messo d'accordo con il giornalaio che mi permetteva di memorizzare la classifica sfogliandolo, poi lo rimettevo a posto e me ne andavo. Cosa mi piaceva? Spaziavo dall'horror di Craven Nightmare (1984), che potevo già vedere perché avevo 15 anni, o Victor Victoria (1982) o Alien (1979). Mi ricordo tutti i cinema dove vedevo i film e mi ricordo che tenevo i biglietti. Quando uscì Ciak fu epocale: quella copertina con Harrison Ford segnò la lettura del cinema in Italia negli anni '80. Vivevo di contrasti. La mia vita era di una solitudine tremenda anche perché ero l'unico in famiglia che era interessato al cinema. Mi ricordo un grande amore anche per Voglia di tenerezza (1983). Dopo aver fatto mille lavoretti tra cui pure il concierge, finisco a lavorare a Mtv. Indovina chi c'era al terzo piano di quel palazzo a Milano? Ciak. E chi prendeva l'ascensore con me? Piera Detassis. Avevo chiesto al mio capo Antonio Campo Dall'Orto se potessi scrivere per loro e lui mi diede l'ok per un pezzo massimo al mese. E quindi, dopo essermi presentato in ascensore a Piera Detassis, cominciai a scrivere il mio articolo al mese per Ciak. Il primo pezzo fu una dissertazione sulla data di uscita dei film e sulle logiche dietro le strategie distributive ed è buffo ripensarci adesso perché non ero ancora un esperto e mai avrei pensato che sarei finito a farlo per lavoro. Parlavo di Mission: Impossible 2. Per me scrivere su Ciak era il massimo, io mi sentivo già arrivato così. Ho scritto su Ciak, lavorato ad Mtv e poi passai a 32 anni a Nexo.
Che cos'è il prodotto audiovisivo per te?
Quand'è che la passione ha battuto il raziocinio nella tua carriera?
Credo mai. Io trovo che non ci debba essere né differenza tra commerciale e qualità e non ci debba essere nemmeno differenza o dicotomia tra passione e sentimento. Io ho passione per l'industry. Una sincera passione e non deriva solo dal fatto che mi sento un privilegiato perché mi sono occupato anche di cilindri pneumatici che sono decisamente meno divertenti da trattare del cinema. Lo dico perché io sono entusiasta solo quando un film viene visto. Industry vuol dire veicolare una passione al maggior numero di persone possibile.
Tu sei anche sceneggiatore. Mi dici come fa il Roberto Proia sceneggiatore a convivere con il Roberto Proia distributore/produttore?
È molto semplice. Roberto Proia produttore non dà mai la luce verde al Roberto Proia sceneggiatore. Non do mai l'ok ai miei script. Una volta che scrivo poi mando tutto all'amministratore delegato e tutti votano se va in produzione o no. Abbiamo un accordo: Eagle legge per prima tutto ciò che scrivo. Al momento sono alla mia 12esima sceneggiatura e hanno sempre preso tutto. Io ho pudore a dire che sono sceneggiatore ma penso che alla 12esima sceneggiatura… in fondo sia ridicolo sostenere che non lo sia. Lo sono. Mi piace scrivere ma non amo leggere. Se scrivo penso sempre se al pubblico possa interessare quella storia o no. Io voglio che il messaggio vada a tutti. La mia prossima sceneggiatura sarà su Andrea Spezzacatena, “il ragazzo dai pantaloni rosa” ed è una storia per me importantissima frutto di ore e ore passate a documentarmi presso sua madre. Non potevo sbagliare a scriverla per rispetto. Ho pensato subito al pubblico, se si sarebbe o no appassionato alla storia. Mi sono inventato un escamotage narrativo: la voce di lui, morto, che parla fuori campo. Tu mi dirai: come Viale del tramonto (1950) o American Beauty (1999). Sì ma Andrea era un persona reale e non di finzione e questo mi metteva in crisi. Allora quello che ho fatto è fondere la voce di Andrea con quella della madre. Sarà lei, alla fine, a chiudere il computer svelando che sta scrivendo un libro. La madre mi ha detto che questo escamotage ha una base di verità perché quando è morto Andrea, lei voleva scrivere i post sui social al posto di suo figlio. Se questo film non farà almeno 3 milioni al botteghino, io avrò fallito. Perché deve essere sia pedagogico che da intrattenimento. Lo vedo più come un dramma propositivo come Wonder (2017) che non una bella mazzata sul lutto come La stanza del figlio (2001). Voglio usare il cinema come cavallo di troia per cambiare la prospettiva delle persone.
Un grande errore compiuto in carriera?
L'errore più grosso l'ho commesso appena arrivato in Eagle. Ero lì da soli 5 giorni. Vedo un film, mi piace ma dico che è troppo romano e decido di non fare nemmeno l'offerta per giocarmi la distribuzione con gli altri concorrenti. Il film era Lo chiamavano Jeeg Robot (2016). Non ebbi il coraggio necessario.
Un grande colpo assestato?
Sul più bello (2020) perché sono produttore, distributore e sceneggiatore. Siamo arrivati con questo franchise anche negli Stati Uniti. Sony in questi giorni sta girando il remake messicano. Ora facciamo anche la serie, sul cui set torinese mi trovo mentre stiamo facendo l'intervista. Manca solo il gioco da tavolo e abbiamo sfruttato il franchise al massimo del suo potenziale (ride, N.d.R.). Nasce da una mia idea quindi è il progetto che mi ha dato più soddisfazione. Per quanto riguarda il lavoro di distributore posso dire Parnassus (2009) o Kate Winslet con The Dressmaker (2015). Organizzammo belle campagne, diverse dall'originale e riuscivamo a fare soldi che quei film che effettivamente non riuscivano a fare altrove. Sul fronte produttivo… ancora Sul più bello perché ha creato utili fuori di testa per Eagle. Credere in me come sceneggiatore è stato bello da parte loro.
Cos'è la cosa più importante che hai imparato del mestiere in questi anni? Puoi citarci un fatto emblematico?
Una cosa che mi ha insegnato la produzione è che in Italia esistono delle professionalità incredibili. Intendo che ho visto delle gemme di talento tra direttori della fotografia, costumisti, scenografi… pazzeschi. Mi arrabbio sempre un po' quando sento nel nostro ambiente sempre decantare la bravura degli altri all'estero perché in realtà abbiamo dei fuoriclasse tra le nostre maestranze.
Cos'è che ti piace di più in questo momento? Quella “cosa” che quando la vedi pensi: “È perfetta”?
Una cosa che mi piace da morire è vedere Barbie e Oppenheimer che incassano cifre da capogiro. A me piace aprire il Cinetel e vedere i film che hanno successo. Una cosa che mi dà tanta adrenalina è pensare e volere che Il ragazzo dai pantaloni rosa vada bene al botteghino. Quando mi addormento la sera mi dico: “Deve venire bene”. Penso che sia importante. Ora per me. Un domani voglio che lo sia anche per gli altri. È sempre quel concetto del film per il più ampio numero di persone possibili.
Tu hai attraversato 20 anni decisivi nella storia dell'audiovisivo. Hai visto, come me, la nascita dell'epoca del franchise a inizio anni 2000 e poi l'esplosione delle piattaforme streaming compiutasi nel 2020 ma iniziata già prima. Cosa succederà secondo te ancora a questa “cosa” nata nel 1895?
Ero ottimista durante il Covid sulla tenuta della sala… pensa adesso che addirittura si reclinano pure le poltrone e ti puoi sdraiare. Credo che la sala resisterà e che cambierà. Ho visto un tik tok proveniente dalla Thailandia di una sala in 4d con le sedie che letteralmente saltavano sul posto a una proiezione dell'ultimo Mission: Impossible. La sala andrà avanti bene e probabilmente si modificherà nel senso che costerà di più. Sarà un'esperienza non solo per la Marvel ma anche per film come Il sol dell'avvenire. Dipende dal film. Bisogna capire cosa vogliono gli spettatori pur continuando a stimolare le loro coscienze. Se noi continuiamo a lavorare così, non vedo minacce all'orizzonte.
L'avresti fatta una saga da Jeeg Robot?
La saga no. La bellezza di quel film è l'artigianalità. Se avessero fatto una saga penso che si sarebbe persa la purezza.
Qual è il regista che ti ha colpito di più con cui hai collaborato e la star che ti ha sorpreso di più da vicino?
Il regista Terry Gilliam. È una roba non di questo pianeta. Quando parlo con lui sbavo come un animale. L'attore? Daniel Radcliffe perché è un persona umile come tutto il suo entourage che mi ha colpito per educazione e correttezza. Poi un giorno mi ha fatto una grande battuta. Io non ho mai visto un Harry Potter. Glielo dico e lui: “Tranquillo Roberto, abbiamo fatto abbastanza soldi anche senza di te”. Una delizia d'uomo.
Si produce troppo secondo te in Italia?
Sì, assolutamente sì. Non sai la roba mediocre che mi arriva. Si produce troppo ma forse soprattutto si produce male. Il rispetto del pubblico è essenziale. Noi dobbiamo provvedere a dare al pubblico italiano la migliore esperienza possibile.
Pensi che l'Italia debba avere una connotazione geopolitica precisa in chiave autoriale e di cinema del reale ancorati alla tradizione neorealista amata e premiata da Hollywood per tuto il '900 o sogni che si torni alla decade dei '60 in cui eravamo fortissimi anche nel cinema di genere tra fantascienza, western, polizieschi, gialli, erotici e horror?
La mia preferenza è nettamente l'Italia dei '60 perché sennò quell'altro cinema è troppo esterofilo e sembra fatto più per il mercato straniero che per quello interno. Per esempio vorrei dire che un poliziesco come L'ultima notte di amore è un film stupendo. Perché c'è un film di genere così bello ogni morte di papa? La crisi della commedia ci sta dando una mano. Il lavoro di Matteo Rovere è encomiabile da questo punto di vista. L'auspicio è che si torni ad essere competivi su generi diversi. Noi siamo pronti e abbiamo tutto in casa, a partire da quelle maestranze eccezionali di cui ti parlavo prima.
È impossibile non chiederti di Dampyr, costato 15 milioni di euro e con appena 352 mila euro incassati in sala nel momento dell'uscita il 28 ottobre 2022. Tu sei uno dei produttori. A un anno dall'evento che bilancio fai dell'esperienza?
Il bilancio economico è buono. Ha generato margini e ci siamo, per usare un'espressione forte, salvati la pelle. Il bilancio professionale è stato negativo. Abbiamo corso un rischio enorme e forse andava creata una rete di “morbidezza”, definiamola così, cercando un commissioner o uno streamer per condividere il rischio. Quindi se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno è stata un'esperienza che ci ha insegnato molto. Ma non siamo stati in grado di intercettare l'appetito del pubblico. A livello tecnico trovo il film ineccepibile però il problema è che c'è stato scarso interesse del pubblico e questo ci ha disorientato. Tornando indietro, oggi non darei l'ok per accendere la luce verde.
Chiudiamo con i nuovi studi di Eagle Pictures. BadTaste ha incontrato Tarak Ben Ammar a Venezia e ne è venuta fuori un'intervista molto ricca di dettagli e aspirazioni. Quale sarà il ruolo di Roberto Proia in questa impresa che pare titanica e cosa ti affascina di più di questa avventura?
Io non ho nessun ruolo. Mi occupo già di distribuzione e sono responsabile di produzione. L'anno prossimo ti dico solo che abbiamo quattro film e due serie tv. Siamo in tre nel mio team, quindi già è dura. Ho tanti set aperti ora e moltissimi set aperti l'anno prossimo. Non ho nessun ruolo dentro il progetto degli studi italiani annunciati da Tarak a Venezia. Sarei felicissimo per la scuola di cinema.
Ti interesserebbe far parte della scuola annunciata da Ammar?
Da morire. Chi mi conosce sa che non sono un accentratore, che delego, che responsabilizzo chi lavora accanto a me e che mi piacerebbe anche l'idea un giorno di salutare tutti e dire: “Adesso tocca a voi”. Passare la mia esperienza ad altri mi attrae molto. E cosa di meglio che una scuola di cinema per realizzare tutto ciò? Per quanto riguarda gli studi, non ne ho le competenza.
Nelle novità Eagle degli ultimi tempi arriva anche l'acquisizione della società di produzione 302. Come vi dividete i compiti?
Non è inusuale che un gruppo abbia al suo interno due società che fanno un mestiere simile, e come in tutti gli altri gruppi le due società vivono di luce propria con i propri progetti. A capo di 302, ora ribattezzata Eagle Original Content, c’è Giuseppe Saccà mentre a capo di Eagle Produzioni ci sono io.