Roberto De Paolis spiega come ha fatto Princess e perché Glory Kevin credesse a quel che girava

Abbiamo intervistato Roberto De Paolis per il suo film Princess e scoperto che la protagonista era sia consapevole che no di fare un film

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Intervista a cura di Bianca Ferrari e Gabriele Niola

In un caldo pomeriggio di settembre abbiamo intervistato telefonicamente Roberto De Paolis, già regista di Cuori Puri, che a Venezia 79 ha presentato il suo secondo lungometraggio, Princess, aprendo Orizzonti. Si tratta di una favola dura e ironica sul mondo della prostituzione, in cui la lingua dei documentari e quella della finzione si mescolano così tanto che la protagonista stessa, Glory Kevin (la Princess del titolo), non aveva sempre chiaro cosa fosse cosa, benché sapesse benissimo di stare recitando in un film.

Glory era uscita dalla strada da un mese e quindi, nonostante la videocamera, continuava a credere a tutto quel che giravamo perché l’aveva vissuto fino a pochissimo tempo prima. Io le ho messo davanti veri clienti che la trattavano da prostituta e quindi si è resa conto che la ricostruzione era tutta vera: anche nel bosco dove giravamo c’erano ragazze che stavano effettivamente lavorando, gente con cui lei parlava in pausa. C’era un clima di grande verità, quindi Glory ci credeva. Quando infatti ha poi dovuto fare la scena di sera con Lino Musella, finito di girare ha chiesto “Che non rimani qui?”.

In che senso credeva a quel che facevate? Perché recitava cose vissute?

Il personaggio nasce da ciò che abbiamo osservato in lei ma inserito sempre in uno schema narrativo di sceneggiatura. Certo, ho adattato quel che ho scritto a personalità e storia di Glory, lei però è sempre stata lasciata libera di parlare come voleva e seguire i suoi umori quotidiani. Mi dava fastidio dirle come doveva sentirsi: bisogna pensare che si tratta di una ragazza partita dall’Africa a sedici anni e stata sei mesi in Libia in situazioni drammatiche, che poi ha fatto la barca e poi la prostituta per pagare il debito…. Insomma Glory era carica all’idea di raccontare la sua storia, come fosse stata in cattività, e io volevo sprigionare esattamente quell’energia.

Princess quindi è un film dove c’è tutto: dall’improvvisazione libera a quella guidata, fino a quella leggera e al testo a memoria. Una delle più rigorose e tradizionali ad esempio è quella della macchina quando Maurizio Lombardi parla con Princess e lei gli chiede di sposarla.

In quella scena ho chiesto a Glory di dire esattamente le battute, senza cambiare o inventare, e devo dire che mi ha sorpreso: in quel momento non potevo permettermi di perdere troppo tempo, pensavo che Glory avrebbe avuto delle difficoltà e invece anche quella scena è molto naturale.

Nella prima parte del film vediamo molti clienti di Princess e Success alternarsi nel bosco. Figure meste, a tratti esilaranti, alcune molto artefatte (come è tipico del cinema) altre di incredibile naturalismo. Sono frutto di storie vere?

Alcuni erano clienti un po’ veri e frequentatori di quel mondo. Sono degli stereotipi a livello concettuale, poi formalmente è importante trovare interpreti bravi e lavorare in un certo modo.

Cosa hai capito delle relazioni tra prostitute e clienti che poi hai raccontato?

La cosa di questo mondo che per me è allucinante è quella delle proiezioni, ovvero queste ragazze diventano sempre quel che gli uomini stanno cercando: per esempio con il  vecchietto Princess diventa come una badante, con Corrado (Lino Musella) che cerca di colmare la solitudine lei pensa e si comporta più da fidanzata, con il ricco che si vuole sballare si trasforma in una ragazza esuberante, che fa intrattenimento con i balletti… Bisogna pensare che queste ragazze sono sottoposte alle proiezioni degli uomini che le pagano e che pretendono che la ragazza diventi quello che vogliono.

Come si possa portare sullo schermo realtà così poco conosciute e renderle affabili e accoglienti, anche ironiche e sentimentali, è la curiosità più grande. Roberto De Paolis ci ha risposto raccontando il suo intero processo creativo, una vera e propria indagine sul reale che si lega a doppio filo con la costruzione di un mondo di finzione.

Cerco di entrare in contatto con realtà che non conosco o che nella vita reale mi sembrano off limits, o ancora dei tabù o che non mi riguardano, tipo la chiesa di Cuori Puri, che per me è alieno come luogo. Il mondo della strada non lo conoscevo affatto: a volte avevo avuto la curiosità di fermarmi per capirlo ma non avevo quel coraggio da cittadino. Da regista invece è stato diverso, mi sono fermato e ho iniziato a parlare con le ragazze per strada per capire di che sentimenti vivessero, dove lavorassero, che tipo di vita avessero alle spalle. Il senso iniziale era di fare un film dal punto di vista di un’immigrata che non fosse scontato. Anche solo visivamente, le prostitute sono sempre ai margini dei nostri riferimenti culturali e sociali - le città e le piazze - e qui addirittura vivono in una foresta, tra fuochi, animali che si mangiano, casette da costruire. Un luogo visivo che metaforicamente e metafisicamente restituisce questa marginalità dei personaggi.

Approcciarsi a questa realtà non è stato facile, e così De Paolis ha necessitato di strategie diverse e propriamente documentaristiche che tenessero conto del fattore umano.

Mi sono finto cliente, anche perché ho capito da subito che se mi fossi posto come regista o uno che vuole fare un’intervista non avrei tirato fuori nulla. Fingendomi cliente potevo capire che succedeva e loro si sono comportate come poi fanno nel film: la camminata per andare dove lavoravano, lei che vuole i soldi e tira fuori il preservativo. Poi continuando a giocare la parte del cliente dicevo “no non me la sento ma visto che ti ho pagato chiacchieriamo” e mi fumavo una sigaretta con loro così potevo carpire molto meglio. Così sei solo un cliente un po’ strano e si mostrano per quel che sono. Qui si tratta di mettersi dentro quel mondo sempre allo stesso livello: un approccio documentaristico e non giudicante. Se il giornalista o il regista rimane nel suo ruolo è difficile per gli altri aprirsi e lasciarsi andare.

Per quanto riguarda i casting il lavoro è stato diverso: si è fatto dello street casting (6 mesi), ma a quel punto non c’era più bisogno di fingere. In questo senso ci ha colpito molto quello che ci ha raccontato a proposito di Glory Kevin. La naturalezza con cui recita farebbe pensare o ad una totale improvvisazione, o ad una costruzione piuttosto limitata del suo personaggio. Invece si tratta di una fortunata commistione tra il vissuto dell’interprete e un metodo di lavoro fluido e adattabile: 

Prima delle riprese abbiamo lavorato di sceneggiatura e lei ha capito di cosa si trattava, chi viene e cosa si fa, come si sente il personaggio, i litigi... Poi quando siamo andati a girare ho fatto in modo che si dimenticasse della finzione e abbiamo usato degli accorgimenti come i ciak lunghi un’ora per accorpare le scene e girarle di seguito, così che gli attori si mischiassero con la realtà e non capissero di stare recitando. Invece che spezzare e fare magari un dialogo, una camminata e un altro dialogo era meglio girare di seguito anche 30/40 minuti aiutandoli ad entrare nel credere davvero che stia tutto accadendo. Più è corto il ciak più si alza la finzione, più è lungo più gli attori ci credono. 

Lino Musella e Glory Kevin hanno fatto molte prove? Come funziona l’interazione tra un professionista e una non?

Si sono incontrati prima e si sono stufati rapidamente di provare, non abbiamo fatto molte prove con lui. Musella l’ha aiutata perché si è messo completamente a disposizione una volta sul set insieme, però credo che anche lui abbia appreso molto. Quando i professionisti e non professionisti si legano insieme anche il professionista impara molto, perché impara la spontaneità: deve rispondere ad un livello di spontaneità altissimo e mettersi in gioco, perdere le certezze, non attingere sempre alla tecnica mavivere più che recitare. Quindi credo che lui sia stato molto influenzato da come Glory lavorasse.

Alla fine il cuore vero di Princess è il raccontodell’aprirsi graduale di una persona che aveva eretto una barriera. Quello è l’arco narrativo sotto allegoria di una favola (con il bosco, la polizia a cavallo, la profezia ecc. ecc.) e questo, dice De Paolis, viene proprio dall’averle guardate, aver guardato come interagiscono con gli altri, cosa che peraltro nel film è uno dei tratti che più dà personalità, ritmo e grinta alle ragazze.

Queste ragazze sono per lo più molto anestetizzate e l’adattamento alla strada ha fatto sì che siano distanti. Diventano ciniche, disilluse e iniziano a credere meno nella potenzialità dei rapporti umani basati su cura e curiosità per non dire proprio l’amore. Già il concetto di amore in Africa è diverso, proprio un universo opposto che si muove su altri binari rispetto al concetto romantico nostro. Una relazione basata sulla reciprocità, in cui qualcuno ha solo interesse nei tuoi confronti, sulla strada è abolito: esiste tutt’altro, ovvero il guadagno, il piacere, la mercificazione. Si tratta di scambi e rapporti che durano poco con persone che vanno via senza salutare, arrivano e non ti chiedono come ti chiami e poi semplicemente ti danno i soldi. Il fatto di stare al cellulare con qualcuno che la prende da dietro me l’hanno raccontata in tante: una totale assenza di contatto e relazione umana, totalmente di masturbazione e di potere. Così ho pensato che un modo per muovere la storia era un personaggio che portasse un mondo diverso e le facesse pensare di poter sperimentare altre cose come la tenerezza, l’ascolto, le risate. La pura voglia di stare insieme.

Come ha reagito Glory Kevin nel vedere il film finito?

Era contenta! Ha riso molto, come al solito sovvertendo le nostre aspettative, nel senso che tutti dicevano “Magari le farà impressione rivedersi” invece era tutta contenta. Si è messa a ballare sulla canzone finale, c’era grande spensieratezza rispetto ai nostri marchingegni mentali che invece sono trappole.

Si apre invece adesso la questione del futuro di Glory Kevin. Non è un’attrice ma ha fatto un film ben ricevuto, si è dimostrata adatta e questa strada potrebbe portare a qualcosa come anche no. Spesso capita a non attori catapultati nel cinema di venire sballottati tra produzioni più o meno affidabili e se alcuni riescono ad emergere (Ninetto Davoli) altri finiscono molto peggio. I casi sono molti e i registi più attenti cercano di seguire le persone che loro hanno deciso di coinvolgere in questo mondo e che magari non ne conoscono rischi, regole e vere opportunità.

Ha una bambina piccola e un compagno, non va più in strada. Ho appuntamento con lei per capire se vuole perseguire la strada dell’attrice, che mi pare affascinante ma comporta impegni da parte sua, oppure fare altro. Attraverso questo film potrebbe lavorare su se stessa e portare testimonianze sulle tratte, trasformando l’essere stata vittima in qualcosa di bello e positivo. Noi siamo con lei, non credo la potremmo mai abbandonare, le abbiamo fatto i documenti, è sempre sotto controllo e vediamo che succederà.

E per quanto riguarda il tuo di futuro invece?

Adesso vorrei fare un film più scritto. Questo metodo da docu-fiction è stato portato per le mie capacità all’estremo, più di così non saprei come spingerlo. Sto facendo un documentario puro e uno di finzione più strutturato e classico. C’è sempre una Roma un po’ diversa però meno ai margini di questa, un film più sulla famiglia sempre in antitesi a quello precedente. E poi un doc su un tema completamente diverso, cose su cui sto ragionando adesso.

Trovate tutte le informazioni su Princess nella nostra scheda.

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