Raul Arevalo e perchè ci sono voluti 9 anni per fare La Vendetta di Un Uomo Tranquillo

Il regista di La Vendetta di Un Uomo Tranquillo, sulla prima incredibile scena del film, le sue ispirazioni e la violenza realistica del cinema europeo

Critico e giornalista cinematografico


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Sognava di diventare regista ma ha cominciato come attore e come tale, Raul Arévalo, sì è fatto strada nel mondo del cinema a partire dalla fine degli anni ‘90. Da noi lo abbiamo visto almeno in La Ballata Dell’Odio e Dell’Amore e in Gli Amanti Passeggeri, poi finalmente l’esordio a lungo atteso e pianificato con La Vendetta di Un Uomo Tranquillo, un film meditato per 9 anni.

Il risultato è un’opera sorprendente di tensione e dramma, piena di rischi e di pericoli ma capace di essere unica. Un film di vendetta che tiene ai propri personaggi come un dramma, un film che inizia con un piano sequenza folgorante e poi raffredda tutto, covando per il resto della durata il desiderio di tornare alle atmosfere del thriller.

E proprio da quella prima, incredibile, scena di questo film abbiamo iniziato l’intervista.

Vorrei sapere tutto di quella prima sequenza, al tempo stesso originale e piena di clichè...

“Come dici non è per nulla originale, funziona semmai come una dichiarazione di intenti. Volevo un tono spettacolare che racchiudesse le due componenti del film: anticipare che stava per arrivare un certo genere ma mantenere quell’aspetto contemplativo che di lì segue, senza macchine che volino a destra e sinistra. Mi serviva proprio quello: un pianosequenza di tre minuti che comprendesse l’attore protagonista, senza stuntmen o pupazzi”.

Questo è considerato solitamente qualcosa di molto difficile da fare. È difficile cioè convincere un attore a non usare controfigure, è difficile convincere un produttore o le assicurazioni ad assicurarlo… Insomma dovevi essere davvero motivato a farla.

“Era una grandissima sfida ma davvero doveva essere una dichiarazione d’intenti, dovevo dire da subito che tipo di film volevo fare, avevo chiaro in testa come farlo ma non sapevo se ce l’avrei fatta. Il mio unico dubbio era se il direttore degli effetti speciali mi avrebbe detto che era fattibile o se la produttrice avrebbe accettato. Invece tutti erano daccordo! Addirittura il direttore degli effetti speciali ha accettato una paga inferiore al suo solito, tanto era eccitato. Tutto per avere maggiore realismo all’interno dei soliti clichè dell’inseguimento”.

Il film ha un meccanismo particolare: ci illude anche con la fotografia di stare in un genere poi cambia e diventa cinema di vendetta (che è un genere a sé). Quanto pensa sia importante l’effetto sorpresa in questo passaggio? È positivo sorprendere così lo spettatore?

“Come spettatore di cinema volevo avere la certezza assoluta che per raccontare questo tipo di violenza avrei potuto prima mettere in scena una realtà quotidiana. Se avessi iniziato con qualcuno che taglia la gola ad un altro lo spettatore sarebbe subito entrato in un certo ordine di idee. Al contrario mettersi in un film drammatico e solo poi arrivare al 50esimo minuto con il colpo di violenza la fa arrivare più forte. L’idea era chiarissima fin dall’inizio per me: unire due generi, fare un dramma con elementi di thriller e non viceversa.
Si tratta di una grande ambizione per un’opera prima: capire come passare da un genere all’altro. Alla fine ho compreso che la teoria era molto più difficile da mettere in pratica di quanto avessi immaginato”.

Ci sono molti modi di fare film di vendetta. Ci sono registi americani che amano come questa sia una scelta etica, c’è chi invece ne ama la componente di coolness come Tarantino. A lei cosa piace in una storia di vendetta?

“Non volevo fare nulla di originale, esistono già mille ottimi film di vendetta, io volevo esprimere un punto di vista. La violenza fa parte dell’essere umano, per questo c’è qualcosa che ci attrae nel cinema di vendetta. Come spettatore mi piacciono i film nello stile di Tarantino, quelli che mi fanno sfogare l’adrenalina che non sfogo nella vita di tutti i giorni, ma per il mio di film non volevo un violenza spettacolare, la volevo brutta e cruda come nella realtà come vediamo nei film di Audiard, i dei Dardenne o di Matteo Garrone”.

Come ha lavorato alle coreografie dei confronti fisici? Solitamente al cinema sono molto elaborate e lontane dalla realtà, La Vendetta Di Un Uomo Tranquillo invece viaggia molto più vicino alle risse reali. Avevate comunque un coreografo o avete lavorato in autonomia?

“In Il Profeta c’è un’orribile scena di sgozzamento che mi ha impressionato, volevo esattamente quello stile. Anche perché quando faccio l’attore e ci sono scene di confronto fisico mi insegnano sempre come farlo bene, come farlo “da film”. In realtà la maggior parte delle persone non sa fare a botte, menano male e con le parti sbagliate del corpo o delle mani. Dunque nonostante avessimo comunque un esperto che si assicurava che nessuno si facesse male, ho dovuto spiegare a lungo quel che volevo, cioè che la violenza non sembrasse bella, che sembrasse davvero la maniera in cui le persone si muovono, non sapendo bene che fare o come fare queste cose. Perché non è facile ammazzare qualcuno”.

Ha menzionato Garrone, ad un certo punto nel suo film c’è un personaggio che parla con una voce assurda che ricorda un camorrista di Gomorra. Matteo Garrone usa persone reali per questi ruoli, il suo invece è proprio un attore?

“È un attore e proprio lui mi ha portato a quel tipo di voce. Gli avevo dato 5 pagine di sceneggiatura in cui il personaggio, Manolo, non doveva mai smettere di parlare. Una volta mentre provavamo le battute a casa, arrivati al terzo bicchiere di vino, per scherzare ha cominciato a farlo con quella voce. Era incredibile! E appurato che non si stesse rovinando le corde vocali ho voluto che lo facesse tutto così. La cosa più difficile è stata poi convincerlo, perché lui credeva di sembrare un attore che finge un’altra cosa”.

I registi italiani che cercano di fare film di genere citano sempre dei modelli stranieri e anche lei ha citato tutti registi non spagnoli. Ce ne sono invece di spagnoli che la ispirano?

“Sì il cinema degli anni ‘60 e ‘70 di Carlos Saura è stata un’ispirazione fortissima per me. Ma per quanto riguarda il genere bisogna considerare che il thriller in Spagna solo recentemente si è emancipato dai modelli americani, giungendo ad un po’ di personalità. Solo da poco sono davvero “spagnoli”. Questa nuova ondata mi ha dato la forza per fare il film ma non mi ha ispirato, io ci lavoravo già da 9 anni”.

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