Rapalloonia 2016: Intervista a Giacomo Bevilacqua, fumettista in cammino
Giacomo Bevilacqua ci ha parlato del suo cammino di fumettista completo, della New York di Il suono del mondo a memoria e di molto altro ancora
Alpinista, insegnante di Lettere, appassionato di quasi ogni forma di narrazione. Legge e mangia di tutto. Bravissimo a fare il risotto. Fa il pesto col mortaio, ora.
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Com'è che uno come te, un comunicatore sotto tanti punti di vista, presente sui social da un sacco di tempo, che ha fatto anche televisione, con il rapporto che hai tu con i tuoi fan, decide di raccontare la storia di un personaggio che decide di smettere di comunicare? Visto che spesso gli autori comunicano anche se stessi, tramite le loro storie, da dove viene questa necessità di non comunicare, del tuo ultimo libro?
All'inizio del libro, la società che dipingo è chiaramente quella dell'immagine, che ci bombarda di messaggi, dai sei o sette social diversi che mi bombardano dal mio telefonino, per esempio. Abbiamo un bisogno di comunicazione che di fondo è buono, ma è costante, onnipresente e in continuo aumento. Molto spesso diventa uno scambio blando che fa sì che, nelle occasioni di reale contatto con la gente, riusciamo solo fino a un certo punto a comunicare. Io me ne rendo conto: una volta incontravo più spesso i miei amici, mentre ora che li sento sempre, che sono sempre a contatto con loro tramite i social, ne sento meno il bisogno. Facebook mi aggiorna su di loro e mi dice come stanno.Ne Il suono del mondo a memoria, questo è portato all'estremo, perché il protagonista ha bisogno di liberarsi da tutta una serie di questioni personali, di allontanarsi da tutta una serie di cose. Solo alla fine si scoprirà il motivo, ma ha bisogno di estraniarsi in maniera totale da questo ambiente. Lo va a fare, paradossalmente, nel luogo in cui si vivono di più i social e la comunicazione quotidiana contemporanea, perché se tu vai a New York, in un luogo pubblico, vedi il novanta percento delle persona al cellulare in maniera quasi costante. Altro paradosso, è uno dei luoghi del mondo con più persone in assoluto, i contatti reali sono moltissimi, ma quelli virtuali li doppiano.
E tu a New York ci hai vissuto e questo ultimo libro è anche una dichiarazione d'amore, da un certo punto di vista. Che cosa, di questo simbolo della civiltà occidentale, ti è rimasto dentro di più?
Guarda, io ci ho vissuto per dodici mesi, distribuiti su due anni diversi. La prima cosa che capisci, non appena ci arrivi per viverci è che si tratta della città più egocentrica che esista, che vi tiene a farti sapere di essere il centro del mondo, mentre quello che succede fuori dai suoi confini non interessa granché. New York è come se fosse una città-stato che fluttua sopra al suolo del resto d'America, è completamente fuori dalle dinamiche del resto della nazione e la coesione di culture così diverse ha dato vita a un luogo diverso da qualunque altro.
Detto questo, a seconda del quartiere in cui stai, è totalmente differente e ci sono divisioni ancora più nette al suo interno, di cui non puoi accorgerti realmente da fuori. Quando vivevo a Midtown, stavo in mezzo ai martelli pneumatici, nel rumore, in una calca che dovevi seguire per strada per forza, perché è uno dei luoghi più movimentati del pianeta. Il mio secondo anno newyorkese era all'East Village, situazione nemmeno paragonabile, molto più rilassata, e una New York del tutto differente dall'anno prima. E per ogni quartiere vale questa cosa. Nelle nostre città, persino a Roma che è enorme, c'è sempre un'identità comune in cui tutti si riconoscono, mentre là no.
Quello che ho fatto su questo libro è insistere sulle differenze tra i luoghi della città tramite la luce, che cambia moltissimo nella realtà della città e ancor più nella mia storia a seconda dei punti in cui si viene a trovare il mio protagonista. A Midtown, piena di palazzi di vetro, c'è una luce azzurra, all'East Village c'è una luce più calda, dovuta alle case di mattoni rossi. Allora mi sono cacciato in questo lavoro faticosissimo che, mannaggia a me, è rendere questo aspetto di New York, la città più complicata del mondo. In assoluto l'impresa più difficile della mia vita, ad ogni tavola, con la consapevolezza che la successiva lo sarebbe stato ancora di più. Maledetto me.
E infatti questo è davvero il libro della tua maturazione, anche se personalmente ti considero un artista maturo sin dai tempi delle tue storie di Skorpio. Tuttavia, Il suono del mondo a memoria è davvero la dimostrazione di una tua crescita ulteriore, anche perché hai fatto tutto da solo, dalle matite al lettering. In più, escludi la parte sonora e di parola, per lunghi tratti, della storia, quindi colori e immagini hanno un ruolo ancor più complesso e centrale. Quanto ti senti cresciuto tu, dopo il laboratorio metanarrativo di A Panda Piace e tutte le esperienze che ti hanno portato qui?
[caption id="attachment_56691" align="alignright" width="200"] Giacomo e Panda[/caption]
Il fatto è che io l'ho un po' sfruttato, Panda. Negli ultimi anni, con le storie realizzate per la Panini, mi sono reso conto che era un progetto molto lungo, di otto volumi e che mi dava grande soddisfazione, ma sentivo il bisogno di mettermi alla prova sotto altri punti di vista. Difficile è stato trovare il tempo di rimettermi a studiare, mentre realizzavo A Panda Piace l'Avventura. Perché è quel che ho fatto: ristudiare i grandi maestri della teoria del colore e della narrazione.
Il fatto è che volevo riappropriarmi di un certo tipo di comunicazioni a fumetti che mi mancava e che forse avevo un po' ignorato per troppo tempo, con immagini realistiche e il colore, che era sempre mancato al mio arco. Molta di questa intraprendenza che ho trovato dentro di me, la devo anche all'amicizia che mi lega a Leo Ortolani, che mi ha sempre spinto a sfidare me stesso su altri campi rispetto a quello per cui sono più noto e mi ha dato un sacco di consigli e di motivazione.
Ora come ora, Panda rimane un po' accantonato, a favore di qualcosa di più maturo e di diverso. Io non sono mai riuscito a fossilizzarmi e a star fermo, a prediligere un genere piuttosto che un altro. Il che, da un lato è una fatica e per questo sono felicissimo che Il suono del mondo a memoria stia piacendo così tanto, cosa che non mi aspettavo, personalmente.
Credo dipenda dal fatto che sia molto, molto personale. Probabilmente è la prima volta in cui hai mostrato il fianco come autore, hai messo una parte di te dentro la pagina, al di là dei discorsi affascinanti e sentiti sull'ansia e sulla creatività che hai affrontato su A Panda Piace l'Avventura. Là c'era una mediazione, sempre e comunque, anche per il portato del personaggio, la sua natura che viene dalla sua nascita. In questo libro, invece non c'è nemmeno quel filtro di quel tipo. E il pubblico lo ha riconosciuto.
Il discorso che faccio è proprio questo. C'è una larga fascia di persone a cui piace e ho letto un paio di commenti di gente a cui non ha detto nulla. Cosa normalissima, perché trovo che le persone a cui non piace un progetto così personale, semplicemente non sono quelle a cui la storia parlava. Inoltre, dopo più di dieci anni che faccio questo lavoro, ho fatto talmente tante cose diverse, alcune delle quali brutte, che ho imparato a pensare che se una mia storia ti fa schifo, probabilmente ti piacerà la prossima o quella dopo. E questa idea mi ha sempre aiutato a non fossilizzarmi, a fermarmi su una sola idea. In quel caso lì, allora forse avrei paura dell'insuccesso, perché se sentissi di poter dare tutto solo in un campo, solo su un tipo di fumetto, allora sarebbe un casino.
Tra l'altro, questo libro con BAO Publishing ti porta nel campo delle graphic novel e a entrare in un certo tipo di mercato delle librerie, anche se sono un luogo che, con i tuoi fumetti, hai sempre frequentato.
Sì, sin da Panda, il mio pubblico è quello delle librerie di varia. In realtà, solo Piace l'Avventura è andato in edicola, ma poi è arrivato in libreria anche lui. Soprattutto, le fumetterie sono il luogo del mio successo. L'edicola, in realtà l'ho frequentata molto meno.
E anche il prossimo progetto arriva in libreria, ovvero la tua nuova graphic novel con Bonelli. Sempre come autore completo, giusto?
Sì. Ormai è la dimensione che mi interessa. E finché avrò qualcosa da dire di mio continuerò. Dopodiché, forse, chissà, potrei pensare di limitarmi a fare disegni, ma spero che questa cosa non succeda mai, personalmente.
Siamo fiduciosi, anche per questa tua voglia di spingerti sempre un po' più in là e cambiare orizzonte, quando ha senso farlo. In questo senso, in cosa pensi che ti abbia portato a crescere ulteriormente questa esperienza con la Bonelli in arrivo nel 2017?
Ti faccio una piccola premessa. Quando uscì il mio Metamorphosis, Mauro Marcheselli mi fece i complimenti per la serie. Quando un direttore editoriale ti dice una cosa del genere, quasi sempre, implicitamente, c'è la volontà di fare due chiacchiere e pensare a un possibile progetto comune.
Soprattutto se si chiama Mauro Marcheselli.
Esatto. Ma il fatto è che io non mi sentivo pronto per la Bonelli, all'epoca, e glielo dissi che, per quanto lusingato, non mi sentivo all'altezza del compito. Ed ecco che nella scelta di tornare a studiare di questi ultimi anni c'era anche una prospettiva bonelliana. Nel 2014 andai da loro a portare una storia breve per Le Storie e furono loro ad apprezzare e a trasformarmela in centotrenta pagine di special a colori per il 2017. Fu Michele Masiero a dirmelo. In più c'è stata l'occasione di realizzare un Dylan Dog e una ulteriore occasione di crescere. Come sempre, anche in questo ambito, non mi sento arrivato, ma in cammino, fortunatamente lungo un percorso che, nella pratica, è meno faticoso rispetto all'ultimo libro.
Quel che posso dirti è che qui in Bonelli ho trovato un clima di grande fiducia nei miei confronti. Su Le Storie, che ha un'impronta molto autoriale, sono stati in grado di mettermi a mio agio, dandomi quasi carta bianca, anche se ovviamente non è che manchi una supervisione. E di questo sono incredibilmente grato, perché ho trovato figure di supporto importantissime, a partire da Michele Masiero. Non che mi sia mancato mai un appoggio o il sostegno, ma adesso che mi sono messo in cammino per affrontare generi diversi e riappropriarmi di un certo tipo di storie, forse ne avevo più bisogno che in passato e, alla Bonelli, mi hanno aiutato molto in questo senso, permettendomi di lavorare nella maniera più rilassata possibile.