Queer, Daniel Craig voleva che le scene di sesso fossero "emozionanti, realistiche e naturali"
Daniel Craig, Drew Starkey e Luca Guadagnino hanno presentato Queer al festival di Venezia e sono entrati nel dettaglio delle scene più complesse
Luca Guadagnino viene accolto nella sala stampa del Festival di Venezia con un applauso quasi da tifoseria: presenta Queer assieme un nutristo cast di attori (tra cui Daniel Craig, Drew Starkey, Lesley Manville e Jason Schwartzman), lo sceneggiatore Justin Kuritzkes, il costumista J.W. Anderson e i produttori.
Queer è ambientato in gran parte in una Città del Messico quasi immaginaria, o meglio la Città del Messico percepita dal suo protagonista, William Lee (Craig). È il 1950, Lee è un americano sulla soglia dei cinquant'anni espatriato che passa le sue giornate quasi del tutto da solo, se si escludono le poche relazioni con gli altri membri della piccola comunità americana. L’incontro con Eugene Allerton (Drew Starkey), un giovane appena arrivato in città, gli mostra per la prima volta la possibilità di stabilire finalmente una connessione intima con qualcuno.
Molto del film lo fanno anche le sontuose ricostruzioni a Cinecittà (dove si è svolta la stragrande maggioranza delle riprese) e gli splendidi costumi, opera di J.W. Anderson. Costumi dell'epoca basati su una grandissima ricerca, come spiega Guadagnino: "Sono l'unico regista con cui Anderson lavora in questo medium, e si concentra sul fare sempre costumi incredibili. In questo caso ha aggiunto molti elementi di traslucenza e traparenza, per riprendere un tema caro al romanzo. Ha compiuto delle ricerche molto approfondite sugli abiti dell'epoca, e molti ricordano l'abbigliamento dello stesso Burroughs".
I protagonisti del film fanno ampio uso di droghe, un'esperienza che il regista può dire di non aver mai avuto nella sua vita: "Vado a letto presto, posso contare sulle dita di due mani i miei amanti, non mi sono mai drogato, non fumo e grazie alla dieta ho perso 15 chili. Ma penso che quando Lee sta annegando nella sua ossessione di non riuscire a collegarsi con l’amore della sua vita, è lì che sprofonda realmente nella dipendenza. È un aspetto molto umano: penso che un regista dovrebbe trovare l’umanità anche nei punti più oscuri e chiari, e questo è uno di quei casi".
Per una lunga sequenza nella quale i protagonisti fanno uso di ayahuasca, i due attori hanno passato settimane a lavorare con il loro coreografo, come spiega Starkey: "Non ho mai avuto un'esperienza simile, nella quale ti concedono di dedicarti così tanto a preparare un singolo momento della storia ed esplorarlo così in profondità". È una sequenza che nel libro non esiste, e che è stata aggiunta da Guadagnino perché necessaria per vedere finalmente il reale collegamento tra i due protagonisti: "Ne abbiamo discusso molto sul set di Challengers, il libro è uscito solo 35 anni dopo la sua scrittura perché era un'opera troppo personale per il suo autore. Ci siamo detti: devono provare l'ayahuasca e affrontare la cosa, perché questa è una storia d'amore".
E proprio perché il filo conduttore di tutta la vicenda è la storia d'amore, Guadagnino spiega che alla fine del film ha scelto di inserire una canzone composta da Trent Reznor e Atticus Ross eseguita da Caetano Veloso, che utilizza l'ultima frase scritta da Burroughs sul suo diario tre giorni prima della sua morte: "Il nostro amore crescerà più grande degli imperi". Ci siamo impegnati perché questa fosse una storia d'amore più grande degli imperi".