Pierfrancesco Favino su rinnovare l'industria dall'interno, scegliere di fare L'ultima notte di Amore e gli accenti
Quanti copioni riceve al mese Pierfrancesco Favino, come mai ha scelto L'ultima notte di Amore e quanto contano i dialetti nella recitazione
L'ultima notte di Amore esce al cinema il 9 marzo
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Spiegava Andrea Di Stefano che fin dalla prima lettura hai subito amato la sceneggiatura. Ma quanti copioni ricevi al mese?
“Non tanti”.
Non ci credo. Se non ne ricevi tanti tu non so chi ne possa ricevere tanti…
“No davvero, non pensare. Saranno 2-3 al mese. Non tutti pensano a me. Ci sono ruoli per me e ruoli che proprio non sono per me”.
Hai qualcuno che li legge per te e te li screma?
“No leggo tutto perché non sai mai da dove arriva una buona idea o una buona storia”.
Eppure stando al box office tu e Paola Cortellesi sembrate gli unici in grado di attirare il pubblico e quindi, immagino, i più desiderati…
“Sì però penso di potermi rendere conto quando un film viene pensato per me, artisticamente, e quando invece viene stretchato per farmici entrare perché così magari trova più facilmente una distribuzione. Non sono così di primo pelo. E poi c’è un discorso che riguarda la mia adesione artistica al progetto. Non penso si possa dire che ho fatto dei film in cui non credevo o perché mi pagavano meglio. Mai fatto. Nemmeno uno che non avesse dietro una vera curiosità artistica”.
E non ne fai pochi.
“Anche quello è frutto di una prospettiva un po’ distorta secondo me, ho fatto meno cose di quel che non sembri negli ultimi tempi. È il sistema italiano che fa uscire un film in sala e uno su piattaforma magari insieme e così ti sembra che siano moltiplicati. Cioè Nostalgia è uscito a maggio e Il colibrì a ottobre. Sembrano tanti ma sono tipo 3 l’anno, solo chepoi te li trovi su una piattaforma tutti insieme e pensi che io sia ovunque. Oh poi sia chiaro, non voglio dire che lavoro poco! Mi ritengo fortunato, solo che sto in un sistema che non consente una finestra sana e io come altri attori, che magari fanno anche più serie, rischiamo di apparire onnipresenti”.
Quando hai letto la sceneggiatura di L’ultima notte di Amore cosa ci hai visto?
“Finalmente una sceneggiatura di genere scritta benissimo! Ho avuto subito la sensazione che Di Stefano mettesse lo spettatore e non la realizzazione del film al primo posto, non l’estetica ma il contenuto, il desiderio di tenere lo spettatore sulla poltrona con questa tensione dentro. E poi Franco Amore è un personaggio che mi dava la possibilità di recitare un uomo comune. Ultimamente mi è capitato di recitare diversi personaggi iconici e quindi ero in cerca della possibilità di cambiare. Infine penso che il pubblico abbia il desiderio di vedere un tipo di film diverso, molto ambizioso”.
Quando hai interpretato dei personaggi iconici hai lavorato moltissimo sulla lingua, ma è qualcosa che tu bene o male hai sempre fatto e non sei il solo. Ho l’impressione che negli ultimi dieci anni moltissimi attori italiani facciano un lavoro sui dialetti che prima non si faceva.
“Non sono d’accordo, prima non si recitava mica sempre in italiano. Pensa a Giancarlo Giannini o a Gianmaria Volontè, alla Magnani o ad Alberto Sordi. Quando Scola in C’eravamo tanto amati scrive un personaggio di Nocera Inferiore e poi una del veneto, un romano e un altro che avea fatto gli studi e quindi aveva un modo di parlare più forbito, stava presentando quattro strati diversi della società in un film che parlava proprio di quello. I film italiani che fanno quel salto lì sono successivi, film degli anni ‘70 tipo Porci con le ali, che è tutto doppiato”.
Sì ma la maggior parte degli attori, una volta, usava il proprio dialetto, pochissimi lavoravano su un dialetto o una inflessione diversa per ogni film, era una rarità.
“È un problema che viene dalla storia della nostra lingua, che dai tempi del De Vulgari Eloquentia ad oggi è un caso. Lingue come il francese e l’inglese sono state imposte 300 anni fa dalla corona come lingue unite, eppure ancora oggi la working class quando viene rappresentata ha sempre un modo di parlare diverso ma se ci pensi lo si sente anche anche in Giù al nord. Noi proprio non abbiamo una lingua unita, nella nostra quotidianità scendi per strada e ovunque trovi sempre esseri umani che con il loro modo di parlare manifestano la propria storia. La nostra esperienza quotidiana è legata a quei suoni. L’italiano buono è una convenzione, se lo parlo è perché socialmente appartengo ad un gruppo e se fai un film realistico non puoi negare questa cosa”.
E non hai l’impressione che questo lavoro degli attori sulle lingue per i singoli ruoli sia molto più diffuso oggi rispetto ad una volta?
“Credo che ora ci sia una più diffusa qualità di scrittura che consente agli attori di poter immaginare un’inflessione per i personaggi. Poi ovviamente dipende anche dai registi, io di certo non impongo come un personaggio parli. Nel libro da cui è tratto Nostalgia ci sono due capitoli riguardo a come parli il protagonista. Anche per Hammamet io sono stato scelto da Gianni Amelio prima di tutto perché la voce di Craxi era di un certo tipo, non è solo la provenienza ma anche il timbro alle volte; Buscetta faceva della voce un biglietto da visita e la sua voce piaceva; in Il colibrì la provenienza di buon borghese toscano del protagonista Veronesi la scrive già nel libro. C‘è insomma un carattere identitario nella scrittura. Fa bene Borghi a dare quell’inflessione al suo personaggio in Le otto montagne, perché Cognetti lo ha scritto così. L’italiano forbito è una lingua razionale, non porta un corpo con sé. È chiaro che se domani interpretassi un giornalista che con la pulizia del parlato vuole creare negli altri una reazione dovrei ragionare in altri termini. Però in generale non bisogna pensare a questa cosa degli accenti come un vezzo, è un aspetto identitario”.
Per questo avete creato una cadenza per Franco Amore?
“Amore è stato spostato a Milano probabilmente intorno agli anni ‘80, quando ci fu una grande ondata di pugliesi. Le persone che ho incontrato nella polizia che avevano l’età di Franco Amore erano tutti o pugliesi o calabresi. E ho parlato con molti di loro. Su questo ci si aggiunge il desiderio di integrazione a Milano che spinge le persone ad uno strano grammelot tra il proprio dialetto e il milanese. È quello dei tassisti. Milano ti spinge a volerti nobilitare, vuoi poterti dire milanese, specie se vieni da un’estrazione popolare. Se ti guardi i video dei poliziotti di notte ce ne saranno massimo 2-3 del nord, spesso gente che ha studiato e con gradi superiori, per il resto sono ragazze e ragazzi che vengono dal sud. Poi per Amore ci si mette il fatto che nella storia il suo sud sia contrapposto al sud diverso della famiglia della moglie, creando un conflitto”.
Dicevi che della sceneggiatura ti ha colpito come metta il pubblico al primo posto. Cosa pensi sia cambiato nella maniera in cui le persone vanno a vedere i film in sala?
“Non esistono più i filoni. Le “formule” che una volta funzionavano molto ora non funzionano più. Il pubblico sceglie per conto suo cosa vedere. Credo che il giusto successo di Le otto montagne o di La stranezza, solo due anni fa non sarebbe stato possibile per questa ragione, perché escono da formule o schemi. Ti fa pensare. Il pubblico inizia a fidarsi di se stesso ed è giusto che sia così: il pubblico (di cui faccio parte anche io) giustamente se si muove da casa è per qualcosa che crede possa essere di intrattenimento e che possa piacergli. Prima misuravamo il successo di un film come gli americani, dall’incasso del primo weekend, ora molti di questi film hanno crescite importanti solo dopo il primo weekend, il che significa che le persone aspettano il passaparola”.
Cosa c’è di identitario in L’ultima notte di Amore?
“Ci sono molte questioni molto italiane. Una storia così in un attimo poteva diventare un film all’americana, invece con Andrea abbiamo insistito perché suonasse italiana. L’onestà ad esempio è un tema molto italiano. Franco Amore è proprio uno di quei poliziotti che potresti incontrare andando a rinnovare il passaporto, non è Denzel Washington! È uno come lo spettatore, solo davanti ad una situazione più grande. Noi non guardiamo ai poliziotti come eroi, l’idea della giustizia del NYPD è diversa dalla nostra. Fortunatamente. E tutti i personaggi di questo film, non solo il mio, sono molto riconoscibili come tipi italiani”.
È con film polizieschi come questo che non ci si fa schiacciare dal mercato?
“Questo è un discorso che ricordo si faceva già all’uscita di Romanzo criminale. Ci veniva detto che non si facevano più film così e che era rischioso. Poi Romanzo criminale ha generato tanti altri film e serie”.
Pensi di aver giocato un ruolo in questo cambiamento?
“Beh, se è vero che mi arrivano tanti altri copioni e se ho un ruolo nell’industria, allora devo essere io, cioè qualcuno di interno all’industria, a cercare di attuare il rinnovamento".
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