Paolo Genovese: "In Italia non abbiamo una cultura cinematografica che parte dalle scuole"
Secondo Paolo Genovese in Italia non c'è né una vera cultura cinematografica né vera volontà di esportare i nostri film...
È uno dei registi italiani di maggior successo degli ultimi dieci anni Paolo Genovese. Basterebbe pensare al Guinness dei primati ottenuto dal suo celeberrimo Perfetti sconosciuti: è la pellicola con più remake in assoluto della storia del cinema. Quella che, in un sondaggio del Corsera di qualche tempo fa, è stata eletta come il più bel film italiano degli anni dieci.
L'abbiamo incontrato per una chiacchierata prima della sua masterclass.
Ho una mia idea abbastanza chiara che deriva appunto da questi ultimi anni in cui i mei film sono stati tanto venduti all'estero e quindi io stesso sono stato parecchio all'estero, fra festival e manifestazioni. In cui il cinema italiano non è solo amato, ma è amatissimo. Va di moda. Fa figo. Non parlo dei miei film, lo specifico. Ma fuori dai confini, la “Serata italiana” nei vari festival è sempre sold out, c'è moltissimo interesse. Purtroppo non c'è un interesse nazionale all'esportazione dei film. Pare che i nostri film debbano avere solo un'esistenza nazionale perché quello che accade fuori non interessa a nessuno. Questo, purtroppo, accade per motivi economici. Il produttore non crede nella potenzialità dell'export cinematografico italiano. Una politica culturale, governativa di sovvenzioni per il cinema italiano all'estero sia fondamentale. Perché portare un film all'estero non significa solo esportare quel film, quell'autore. Significa esportare la nostra cultura, il nostro territorio. Il nostro cibo, la nostra moda. Qualunque cosa venga raccontata in quella data storia. Penso che le potenzialità ci siano e che siano enormi. Ma ci vorrebbe più orgoglio da parte nostra, un orgoglio che dovrebbe anche andare oltre l'interesse economico. Tutte cose che i francesi fanno da sempre. Con un livello cinematografico che, mediamente, non è superiore al nostro. Ultimamente lo stanno facendo molto anche gli spagnoli. La speranza è che con l'internazionalizzazione dovuta alle piattaforme questo possa avvenire un po' di più. E forse avverrà, ma limitatamente a quel contesto. Ma il bello sarebbe sempre la conquista della sala. Da un lato c'è quindi una responsabilità d'export. Ma, dall'altro, c'è anche quella di noi autori nel riuscire a concepire storie internazionali. Oggi fare una storia internazionale non significa andare fuori e fare una storia con attori inglesi. O stranieri. Essere internazionali significa anche saper raccontare una storia del nostro paese con un linguaggio comprensibile a tutti. Io ho avuto la fortuna di vivere un'esperienza come quella di Perfetti sconosciuti che è una storia interamente italiana comprensibile a tutti. Ma potrebbe accadere anche con qualcosa di pure più italiano, ancora più piccolo e di nicchia. Pensa a Parasite.
Assolutamente. Una storia di lotta di classe tipicamente coreana che ha conquistato il pianeta.
È così nazionale, intrisa di cultura e società coreana che è diventato quello che è diventato. Le potenzialità le abbiamo, il cinema italiano è amato. Ma dobbiamo avere la volontà di portarlo fuori dai nostri confini. Una politica governativa di sostegno che possa smuovere il settore in tal senso sarebbe utile.
Mi viene naturale farti una domanda che nasce dalla chiacchierata fatta l'altro giorno con Paolo Ruffini. Secondo lui in piena pandemia, coi cinema chiusi, sono stati fatti troppi film che non sono stati visti da nessuno solo per sfruttare il tax credit. Concordi?
Condivido in parte. Mi spiego: il meccanismo del tax credit, non so se per fortuna o no, in questo momento è vitale per l'impresa cinema. Deve esserci e ben venga.
Chiaro, lo usano a ragione anche gli americani se girano da noi.
Esattamente. Sui criteri di selezione sono assolutamente d'accordo. Voi sapete meglio di me il numero di film che vengono fatti per il cinema e quanti di questi non arrivano effettivamente in sala. Compresi quelli che fanno l'uscita tecnica di tre giorni solo per giustificare il tax credit. Per me un film che arriva al cinema per tre giorni non è uscito. Nel momento in cui, annualmente, hai 150? 200 film? Sono risorse buttate e opportunità mancate. Una politica di sovvenzioni che agisca sulla base di criteri relativi al fatto che un film possa effettivamente andare in sala è doverosa altrimenti è solo un espediente per far girare i soldi.
Cosa ne pensi dell'iniezione di fiducia arrivata al box office grazie a titoli come Super Mario, Barbie e Oppenheimer? Al come siano riusciti a portare in sala anche quella demografica inseguita dai reparti marketing di tutto il mondo, ovvero gli adolescenti e i pre-adolescenti? Qual è la sfida più grande che ha il cinema quando si tratta di portare in sala chi sta crescendo sottoposto a un bombardamento d'immagini più o meno flash come quello attuale?
Penso che gli esempi che hai portato non siano strutturali. Sono dei casi. È come la gente che guarda Sanremo. Venti milioni di persone. Poi però quanti di questi comprano effettivamente un qualche album? Sono degli eventi mediatici con delle campagne di comunicazioni incredibili che ti portano a interessarti e ti coinvolgono per la porta mediatica del film, non tanto per la percezione del suo valore. Nessuno è andato pensando di vedere un capolavoro nel caso di Barbie, probabilmente Oppenheimer essendo Nolan portava con sé qualche aspettativa in più. Però il coinvolgimento mediatico è quello che crea il tema di discussione che ti porta a pensare “Devo vedere quello di cui tutti parlano”. Noi operazioni mediatiche come quelle non ce le possiamo permettere. E penso che non sarebbero neanche giuste per il nostro cinema. Come portare la gente al cinema? Se ne discute sempre. Secondo me andrebbe fatto un primo, doveroso passaggio. Prendere atto del cambiamento del modo di vedere e di fruire le storie. Dobbiamo fare pace con questo concetto. Personalmente non demonizzo le piattaforme anzi: ben vengano! Il cinema ha sempre avuto a che fare con delle rivoluzioni della fruizione: prima andavi solo in sala, poi l'home video, i Dvd, poi il supporto fisico è quasi scomparso... C'è un'evoluzione nel modo di fruire. Oggi a casa abbiamo a disposizione tecnologie sempre più a buon mercato e sempre più di elevata qualità mista ai costi mediamente a portata di portafoglio delle piattaforme: roba che porta a fare i conti con questo tipo di fruizione. Ma in tutto questo, il cinema non deve scomparire. Deve diventare l'alternativa. L'altro modo di vedere un film. E qual è la differenza? È quella d'immergersi e regalarsi – in un momento così frenetico – due ore in cui ci facciamo raccontare una storia nel suo posto ideale, con i suoi colori e suoni ideali, con la meraviglia di apprezzare al 100% la storia che decidi di vedere. Come si fa a far capire questo? Con la cultura. Noi non abbiamo una cultura cinematografica che parte dalle scuole. Un ragazzo colto, che conosce il cinema e sa quanto lavoro c'è dietro non per questo va in automatico al cinema, ma comincia a considerarla un'opzione. Una grande responsabilità è quella di creare una cultura cinematografica. Ma è un discorso che vale anche per il teatro e la musica. Un pubblico colto è un pubblico che fruisce il cinema, che va a teatro e che acquista dischi. Ma c'è anche una responsabilità di noi autori: è un momento in cui dobbiamo meritarci il pubblico. Portarlo al cinema. Quindici anni fa non dovevamo portare il pubblico al cinema: si andava in automatico al cinema e poi si sceglieva il film. La concorrenza era tra i film. Ora invece è fra il divano di casa e la sala cinematografica.
E questa cosa qua con cui sto registrando la chiacchierata (lo smartphone, ndr.).
Esatto. Tanto lo vedo in metropolitana. È un nostro dovere raccontare, comunicare storie che vale la pena vedere e che non deludono il pubblico. Questi due elementi, culturale e qualitativo, sono quelli che possono riportare la gente in sala. Altrimenti è difficile.
BadTaste ringrazia Castiglione del Cinema e il Comune di Castiglione per il supporto.