Oltre il cinema: i Fratelli D'Innocenzo tra letteratura, fotografia e musica | Intervista
Abbiamo incontrato i Fratelli D'Innocenzo e abbiamo parlato con loro di come fotografia, letteratura e musica influenzino il loro cinema
In questo estratto della bellissima e davvero sentita introduzione della poetessa e drammaturga Mariangela Gualtieri, che ha accompagnato e incalzato i fratelli D’Innocenzo nel corso dell’evento “Gemelli di versi (e pellicola)” al Festivaletteratura di Mantova, è racchiuso tanto di questo inizio di carriera dei due gemelli originari di Roma.
Fabio e Damiano padroneggiano sempre abilmente la materia di cui parlano, e nella maggior parte dei casi sono approfondimenti sul comportamento umano. Si passa dalle analisi sulla loro infanzia (“Noi abbiamo vissuto due infanzie: una dove il nostro corpo si trasformava e una dove osservavamo il cambiamento dell’altro, siamo legatissimi dall’infanzia. Poter dire che una cosa l’ho fatta con mio fratello, è meraviglioso. Lui è il primo che chiamo quando sono felice o sono triste, credo che il fatto di essere in due in tutte le cose che facciamo sia la nostra ancora di salvezza”) al ruolo dei genitori odierni (“I genitori di oggi hanno ansia da prestazione nei confronti dei figli, temono che si annoino e sono impauriti dall’idea che possano avere dieci minuti liberi per pensare”).
Non mancano ovviamente riferimenti e considerazioni sui due film finora realizzati, ma in attesa che anche chi non era presente nella cornice del Museo Diocesano di Mantova possa ascoltare la registrazione dell’evento che il Festivaletteratura renderà disponibile, abbiamo incontrato i fratelli D’Innocenzo per definire con loro quanto altre forme d’arte e narrazione influiscano sul processo di creazione dei loro film.
Quali sono le peculiarità che preferite della fotografia e della letteratura che le rendono uniche e diverse rispetto alle altre forme d’arte e narrazione?
La sintesi. Sia la fotografia che la poesia sono forme artistiche che esistono per attimi. Attimi che puoi tenere in tasca per anni e anni come un bronzino. La sintesi è fondamentale. Nella vita non ti scordi 100 euro dentro un paio di jeans. C’è bisogno di essere stringati, di essere invisibili ai più, invisibili in tutti i sensi. Nella fotografia che amiamo noi, per esempio, è inconcepibile che il soggetto sia al corrente di essere fotografato. Nella poesia i protagonisti dei versi non si danno arie. Vengono guardati, analizzati, ma lo si fa con pudore, come quando da bambino ammiri la tua cotta segreta.
“Mia madre è un’arma” e “Farmacia notturna” hanno delle radici/influenze culturali ben precise, nei quali vi siete preoccupati di rimanere fedeli e all’interno di un determinato stile, oppure sono stati progetti che per voi hanno significato maggiormente dei flussi di coscienza e delle urgenze comunicative?
‘Mia madre è un’arma’ e ‘Farmacia Notturna’ soffrono di tutti i difetti degli innamorati, eccezion fatta per l’abuso di stile. Sono infatti due lavori estremamente misurati e sostanziali. Lo stile è la maschera dei vuoti e non ci interessa mai. Il flusso di coscienza, presente nell’intro e outro di ‘Farmacia Notturna’, sembra un’improvvisazione ma è stato invece un gesto sorvegliato e preciso. Sorvegliato e preciso non necessariamente significa buono, ma significa certamente non casuale. Non siamo affatto dei fan dei flussi di coscienza perché spesso diventano sfoghi momentanei, spasmi così, lotte permalose o dichiarazioni etiliche su Whatsapp piuttosto che il frutto di impegno e rigore.
Sebastiao Salgado, Annie Leibovitz, Steve McCurry ecc.: i mostri sacri della fotografia sono tantissimi, quali sono quelli che ammirate maggiormente?
Non quelli che hai citato tu. William Eggleston, Lise Sarfati, Alice Sossella, Daido Moriyama. Fotografi del marginale. Fotografi straordinari che non vogliono farti pesare il loro talento. Ecco, la generosità nel talento sta soprattutto nel non fartelo pesare.
“La terra dell’abbastanza”, e quindi di conseguenza la vostra filmografia, inizia con una brano jazz che imprime subito un sapore particolare. Durante la fase di scrittura delle sceneggiature, siete abituati ad ascoltare musica in sottofondo?
Noi sentiamo musica praticamente tutto il giorno. Quindi il sottofondo della nostra anima è la musica. Noi per scrivere una storia partiamo da uno stato d’animo, non da un plot, e la musica può condizionarci molto. Ma scrivere letteralmente con la musica in sottofondo è barare con sé stessi: chiaramente Beethoven nello stereo renderà la scena che stai scrivendo molto regale e ben orchestrata. Ma quando la rileggerei in silenzio ti accorgerai che è un guazzabuglio pretenzioso e datato.
In “Favolacce” la voce fuori campo cita “Il fantasma di Canterville” come compito assegnato per le vacanze agli studenti. C’è un legame che vi lega a questo racconto ed è quindi un omaggio alla vostra adolescenza, rendendolo di fatto una sorta di “easter egg” per parlare di voi stessi all’interno del film, oppure è esclusivamente funzionale alla storia?
Noi siamo molto nostalgici. La nostra principale forma di cultura è la nostalgia verso quello che eravamo, che abbiamo visto e vissuto. Vorremmo dirti che dietro “Il fantasma di Canterville” ci sono mille riferimenti colti da cogliere tra le righe (e alcuni ci sono, anche molto marcati) ma la scelta di quel libro rispetto a Tom Sayer o Moby Dick è essenzialmente sentimentale. “Il fantasma di Canterville” è un libro che abbiamo letto durante le vacanze estive di scuola media. Esattamente come nel film.
Nei vostri film avete avuto la grande opportunità di lavorare con Paolo Carnera, uno dei migliori direttori della fotografia in Italia. Nei confronti e nelle conversazioni con lui per cercare di ottenere il meglio dal suo ruolo, i fotografi possono rientrare nelle ispirazioni per come impostare e gestire l’illuminazione nell’inquadratura oppure le ispirazioni sono solo ed esclusivamente lavori di altri direttori della fotografia?
Le ispirazioni con Paolo Carnera non sono mai lavori di altri direttori della fotografia. Partiamo e finiamo sempre lontano dal cinema, fortunatamente. Il contrario sarebbe molto triste: pensa a tre calciatori seduti al tavolo, di sera, a parlare di pallone. Miserabile, freddissimo, atroce. Con Carnera ci siamo sempre scambiati direzioni più soddisfacenti e intuitive come disegni, fotografie, libri e musiche. Questo rende il lavoro sul set eccitante. Se sei a un appuntamento con una ragazza e le confidi che vuoi scopare, sei un autentico suicida emotivo. È bello scambiarsi tutt’altro e magari arrivare al sesso poi, da muti. Senza che se ne discuta troppo. Arrivarci che ti eri quasi scordato lo volessi così tanto, prima. Inoltre se per una scena citassimo, che ne so, Storaro in ‘Il Conformista’, poi saremmo costretti a farla quantomeno ugualmente buona. Mentre se non citi nessun film, sul set puoi sbagliare senza troppi rimpianti.
Prima di iniziare a scrivere una sceneggiatura, vi immergete nelle atmosfere che avrà la vostra storia assorbendo determinati film, romanzi, scatti fotografici, videogiochi ecc. che ricalcano un po’ le stesse atmosfere?
No, affatto. Leggiamo, disegniamo, ascoltiamo musica, vediamo film, incontriamo animali, purché non ci parlino direttamente di quello che stiamo facendo. Quando abbiamo fatto ‘La Terra Dell’Abbastanza’ non abbiamo visto film crime per almeno due anni. Una volta uscito in sala ci sono stati molti paragoni con ‘Non essere Cattivo’. Vallo a spiegare che non l’avevamo ancora visto. Per ‘La Terra Dell’Abbastanza’ i primi riferimenti filmici sono stati ‘The Outsiders’ di Francis Ford Coppola, ‘Masahista’ di Brillante Mendoza e ‘Ossos’ di Pedro Costa.
Intervista a cura di Leonardo Piva