Niccolò Ammaniti su Anna, i videogiochi, gli anime e come fare una serie "cruenta ma accettabile" | EXCL
Dall'horror che più ha colpito Niccolò Ammaniti al dover spiegare sempre tutto agli attori adulti fino a come dirigere i bambini di Anna
Anna arriva il 23 Aprile su Sky in 6 episodi da un’ora e non è chiaro se ci sarà una seconda stagione. Di certo la trama e l’idea di un mondo in cui un virus ha ucciso tutti, dagli adolescenti in sù, lasciando i bambini ad amministrarsi da sé, sono più grandi della sola Sicilia in cui è ambientata la serie e quindi rendono possibile qualsiasi sviluppo.
Di certo la cosa più strana è come la serie esca durante una pandemia.
Se tu fossi stato uno spettatore e non l’autore di Anna e l’avessi vista tutta, cosa pensi che avresti pensato dello strano rapporto che una storia creata diversi anni fa ha finito con l’intrattenere con i veri fatti di questo anno?
Sei il secondo romanziere dopo Donato Carrisi che negli ultimi anni vedo diventare regista...
Sì ma mai con queste produzioni o questo successo!
Ma dipende… Facendo gli scrittori si diventa insofferenti alla solitudine e bisognosi di confrontarsi con le altre persone. Lo scrittore al massimo si confronta con un editor e un ufficio stampa. Il cinema invece è un mondo che ti apre un modo di lavorare fatto di progetti in comune con altri. E poi c’è l’aspetto dell’immagine, il rapporto con la realtà e con la luce, e quella è un’altra ipotesi di una tua storia che a sua volta ha mille limiti perché in un libro se voglio metto un’astronave a piazza del Popolo da cui escono zombie nazisti, in una serie è tutto preparazione e fattibilità.
Il punto è un po’ questo: quando scrivi hai gli stessi mezzi di tutti, giochi ad armi pari pure con Manzoni, Dostoevskij o Ken Follett. Al cinema è diverso, ci sono i limiti di mezzi a disposizione, i limiti di budget e i limiti dei collaboratori che non sono uguali per tutti o a cui magari semplicemente non è che vada tanto di dare il massimo come a te. Ti pesa accettare queste limitazioni?
I limiti ci sono sempre, specialmente fisici per uno come me che è abituato a stare seduto. Io faccio il regista perché me lo sono conquistato facendo lo scrittore, perché se arrivavo avendo fatto, chessò, l’architetto mi rispondevano “Ciao!” anche se mi presentavo con Il miracolo. Insomma è un lavoro che mi sono conquistato con un altro lavoro. Come tutti i mestieri ci vuole una tecnica, bisogna capire come funziona il sole, cosa dire agli attori e come funziona un diaframma o un carrello e poi ottimizzare quello che hai, le persone con cui lavori, convincerle e fargli vedere un progetto che non esiste e si basa su una sceneggiatura che non vede nessuno. Insomma ti devono credere, sei un prete che convince i fedeli di qualcosa che non hanno visto, ed è interessante ogni volta alzare l’asticella, capire di più e trovare il collaboratore che funziona di più.
La cosa più strana è che di solito i romanzi si devono stringere per diventare film, alle volte anche per diventare serie, tu invece dici di averlo allargato.
Tutto viene da una scelta: eliminare il cane Coccolone, che nel libro è molto presente. Anna ci diventa amica e lo addomestica dopo averci combattuto. Era troppo complicato, già temevo di non poter lavorare con i bambini, figuriamoci con anche un cane! Levando Coccolone si sono allargate maglie di storie che mi erano venute in mente dopo aver pubblicato il romanzo e quindi ho cominciato ad aumentare.
Ne hai altre ancora di storie? È un modo non troppo sofisticato per sapere se hai voglia di una seconda stagione. In America dipende dagli ascolti ma ho capito che in Italia non è sempre così, spesso conta più la volontà dell’autore.
Di storie ne ho tante e sto sempre lì ad immaginare alternative e possibili sviluppi, il problema è che mi piace anche cambiare storie. L’ipotesi per la seconda stagione ce l’avrei anche ma non so se mi va. Come è successo per Il miracolo, anche lì potevo immaginare una seconda stagione e ci ho pensato ma ho la sensazione di ripetere... Non sono un serialista, la mia rimane un’anima da scrittore. Non posso fare 6 stagioni con i meccanismi oliati che poi si ripetono.
Non devi per forza farla tu però.
Mi darebbe fastidio se la facessero altri. Penso che sia un’opera autoriale. È più un film lungo, ha dinamiche e rapporti che non sono da serie, e non so se un altro riuscirebbe a replicarli e quindi forse finirebbe ad essere un’altra cosa.
Cosa pensi la renda più un film più lungo che una serie?
Non ha quei meccanismi di personaggi che ritornano o che costruiscono incastri tra di loro che emergono nel tempo nella tipica costruzione narrativa da serie. Questa è una lunga avventura, l’attraversamento di un continente e l’incontro con strani personaggi, che è una struttura da romanzo. Poi mi piace come si chiude, che ognuno possa immaginare quel che vuole dopo il finale. Anche se poi io ho pensato cosa possa accadere.
C’è stato un momento ad inizio anni 2000 che si parlò molto con le consuete esagerazioni giornalistiche del fatto che eri entrato nel tunnel dei videogiochi. Da come era stata messa la cosa sembrava fossi uno scrittore finito per la dipendenza videoludica. Immagino non fosse esattamente così, tuttavia non se n’è più parlato, non giochi più?
Io continuo a giocare anche oggi. Anzi specialmente da quando è cominciato il lockdown ho ripreso. Prima avevo smesso, specialmente durante tutto il lavoro per la serie, che è durato quasi 3 anni, non c’è tempo per nient’altro: mangi, dormi e lavori. E va bene così. Ma da quando mi sono chiuso in casa (e finchè non mi vaccino non voglio uscire) ho ricominciato a giocare. Sono ripartito da vecchi giochi che sono molto cambiati, come World of Warcraft a cui giocavo 20 anni fa. Certo ora non ci gioco più online con 50 persone ma con 2-3 amici, gli stessi dell’epoca che ho ritrovato dopo anni e non ci credevano nemmeno loro! Ma gioco a molto altro eh, mi sono fatto l’X-pass e scarico parecchi giochi. Avevo lasciato questo mondo che ne dovevi comprare uno e solo poi scoprire se avevi preso una sòla storica e ti toccava provare a venderlo o ne era valsa la pena, ora è come andare in libreria, puoi provare un po’ di tutto. È fantastico.
Quello che è cambiato è soprattutto che i videogiochi hanno sviluppato forme di racconto molto sofisticate, ti attirano?
Quelli molto raccontati mi annoiano, quelli in cui si parla dei personaggi e ci sono spiegoni, mi piacciono i giochi che ti fanno fare cose e che non siano difficili, anche le ambientazioni, le luci e quella grafica o la capacità di costruire personaggi. Mi piace come si muovono e gli ambienti in cui lo fanno. Un gioco che ho scoperto da poco è Automata e mi fa impazzire, ha un immaginario molto manga.
Ecco, i manga. In Anna ci sono tantissimi dettagli, spunti narrativi, personaggi ma soprattutto idee visive che sembrano prese dai manga e gli anime più noti. Ne leggi?
No, non li conosco, non sono mai stato un grande amante dei manga o anime, ero troppo grande quando c’è stata l’esplosione, ero già nella letteratura. Cioè ne ho letti eh, tipo Gon ma non li conosco abbastanza.
Eppure ci sono molti riferimenti specialmente per la parte con i Blu. Lavori con gli storyboard?
Solo per le scene complicate, tipo quelle con molti effetti visivi. In generale però non mi trovo bene con gli storyboard perché poi non li seguo e tutti si arrabbiano. In compenso abbiamo lavorato molto con disegni e bozzetti sui mostri tipo quello appeso sulla villa dei Blu di Angelica. Per tutto quello che è scenografia ho avuto i disegni di un bravissimo illustratore che mi ha aiutato e ha una sensibilità vicina alla mia, poi li ho consegnati alla costumista che li ha lavorati.
Magari allora vengono da lui quei riferimenti giapponesi…
Può essere. Si chiama Pietro Scola Di Mambro [lo stesso che ha fatto da concept artist per Pinocchio di Garrone ndr] e in effetti di anime ne ha visti. È pazzesco!
Al contrario una cosa visivamente molto nostra è il fatto che quasi tutti i bambini tengano con sé i cadaveri, nelle stanze, nelle vasche…
Gli antropologi dicono che uno dei grandi passaggi dell’umanità è stato quando abbiamo iniziato ad onorare i nostri morti e seppellirli, sentendo che non sono solo animali da abbandonare ma hanno un’anima. E così ho pensato che loro potevano lasciare i cadaveri perché non c’è più un’organizzazione del genere e la memoria è sempre fondamentale, specie per Anna, perché è il lascito che deve tramandare al fratello. Lei alla fine è un ponte tra sé e il fratello.
A proposito di Anna e il fratello, in tutte le scene in cui i due sono piccoli e da soli l’impressione è che non siano stati propriamente diretti ma che l’unico modo per avere la spontaneità di bambini allo stato brado sia stata di fargli fare i bambini allo stato brado...
Sì li lasciavamo fare quel che volevano e ad un certo punto si dimenticavano dalla videocamera. Quando parlano di fare la cacca e Astor dice ad Anna che vuole andare dalla mamma e poi sbatte contro il vetro è spontaneo, non lo puoi creare. O nel piano sequenza lungo della morte della maestra in cui Anna torna alla macchina e il bambino esce e dice “Aspetta!”, attacca una gomma alla sedia, vede poi la maestra a terra e dice “È cascata!”, lui non aveva coscienza di essere stato ripreso altrimenti avrebbe avuto quella spontaneità.
Ma non era faticoso per tutti questi bambini e ragazzi tenere i ritmi del set? Non hai avuto problemi con nessuno?
No, erano sempre tutti eccitati all’idea di ricominciare. Mia moglie li aveva preparati molto bene, spiegandogli che è un lavoro duro, poi avevamo degli assistenti che si occupavano di loro e dei loro genitori. Ho fatto di certo più fatica con gli adulti di Il miracolo. Agli adulti li devi convincere di quel che devono fare, ti chiedono il percorso del personaggio e non è che io creda molto che debbano capirlo. Devi spiegargli ogni volta: “Guarda che tu sei attore e io regista, quindi devi fare quel che dico!”. I bambini invece credono alla singola scena, se gli dici che si deve arrampicare il suo problema è farlo e rispondere ad una domanda di un altro, non capire il senso complessivo, che è la loro forza.
Vedendo tutto Anna ho avuto l’impressione che la messa in scena fosse sempre un passo indietro alla scrittura quanto a desiderio di spingere sul crudo e disturbare. La trama, le situazioni e quel che accade alle volte sono durissime ma la messa in scena mi pare faccia di tutto per attenuare, nascondere e mostrare quegli eventi in modo che urtino il meno possibile.
È voluto. Credo esista un margine tra quello che è esibizione e quel che è funzionale alla storia. Anche le scene più efferate stanno lì con l’obiettivo di raccontare l’evoluzione di un mondo e di Anna come protagonista, devono essere impressionanti ma non devono essere horror. Devono essere credibili e sconvolgenti, ma poi la distanza è necessaria a metterle in scena per trovare la parte meno offensiva e violenta.
È qualcosa che non ti piace vedere come spettatore?
Non è quello, io sono pure appassionato di horror, è che penso che non sia il fine di Anna. Non ho necessità di portare il pubblico a The Hostel. Quando accade qualcosa di violento avviene perché ti dice qualcosa sul personaggio, se qualcuno muore, se qualcuno è ferito o anche se perde una parte del corpo è come se perdesse l’adolescenza e un pezzo di sé. Ecco per far uscire tutto ciò dalla storia, in questo caso, deve accadere realmente, così che possiamo vedere i personaggi superare i propri limiti.
Non è solo la violenza che non vediamo ma il fatto che spesso nascondi la maniera in cui è arrivata quella violenza, che può essere anche peggio del male in sé. Capita che in diverse scene vediamo l’esito di un atto violento, i resti, ma non l’azione che l’ha causato con tutto il suo portato di tensione, paura della vittima e l’immagine di bambini o adulti che compiono atti efferati. La scrittura ci fa capire cosa sia accaduto e noi lo immaginiamo, ma tu non lo mostri praticamente mai.
È proprio così, ognuno se lo può immaginare ma in quel momento è come la lacrima di sangue della madonna di Il miracolo. Non volevo esagerare e credo che Anna debba essere una visione non disturbante. Forte, con scene cruente ma accettabile.
Ad ogni modo vuoi sapere l’horror che più mi ha colpito in vita mia?
Sì
Melancholia. Quello per me è il massimo della sopportazione perché quest’idea di questo meteorite che si allarga nel dolore di questa famiglia dentro un castello… Sono stato giorni a soffrire eppure non c’era un goccio di sangue. Mi pare sempre che le scene cruente siano facili e diano pochi risultati.