Napoli Comicon, Tunué - Il piccolo Caronte: Intervista a Sergio Algozzino
A Napoli Comicon abbiamo intervistato Sergio Algozzino, scrittore de Il piccolo Caronte, edito da Tunué
Fumettallaro dalla nascita, ha perso i capelli ma non la voglia di leggere storie che lo emozionino.
Ringraziamo sentitamente Stefano Panetta e tutto lo staff della casa editrice.
Ciao, Sergio e benvenuto su BadComics.it! Partiamo dalla tua ultima graphic novel, "Il piccolo Caronte", opera a cui hai lavorato nelle vesti di sceneggiatore. Da dove nasce l’idea per questo libro curioso e originale?
L’idea è nata qualche anno fa, ma portando avanti gli altri lavori tendevo sempre ad accantonarla. In particolare perché non riuscivo a immaginare questa storia disegnata da me. Da lì è nata l’esigenza - chiamiamola "sfida" - di provare a scrivere una sceneggiatura senza occuparmi dei disegni e vedere cosa sarebbe diventata attraverso lo sguardo di qualcun altro.Considerando le tue precedenti prove, sia come sceneggiatore che come disegnatore, la scelta di dedicare un libro a Caronte e a suo figlio risulta davvero particolare.
Aggiorno continuamente un block notes sul quale registro spunti per idee future da sviluppare in una storia. Non è detto che tutto ciò che scriva diventi necessariamente un romanzo grafico. Per me la cosa più importante è avere più idee contemporaneamente, lasciare che crescano e che presto o tardi mi assaliscano. È a quel punto che senti la necessità di realizzare una storia in particolare.Con "Il Piccolo Caronte" è andata così, sebbene questo spunto tendeva a essere sempre superato da altri. Come autore completo ho infatti realizzato storie più intimiste, dalle ambientazioni realistiche, ma sentivo l’esigenza di sviluppare un tipo di racconto differente. In questa prima fase il riscontro è stato più che positivo e questo mi spinge a portare avanti tutto quel blocco di storie dello stesso genere che ho accantonato.
Nella creazione del fantastico universo nel quale si muove Mono, il protagonista del tuo racconto, a quali fonti hai attinto? Hai creato tutto ex novo o ti sei lasciato influenzare da qualche opera in particolare?
Avevo dei modelli ben precisi di struttura ai quali fare riferimento. Uno era il "Canto di Natale", di Charles Dickens. Essendo un racconto di formazione su un personaggio che nella fase iniziale ha delle caratteristiche e giunto alla conclusione, dopo una serie di incontri, cambia, il modello strutturale non poteva che essere quello. Ovviamente c'è anche tutta una serie di altre letture che, bene o male, abbiamo fatto tutti, come la "Divina Commedia", di Dante.
Nonostante questo, mi sono dato l’obbligo - come già fatto per tutte le mie opere precedenti - di rifarmi a riflessioni personali filtrate attraverso la mia vita quotidiana. Il rapporto tra vita e morte è un tema abusato e in letteratura ci sono tantissimi esempi. Ho preferito inserire all’interno del racconto tante mie piccole esperienze, come il musicista in metropolitana e altri micro-momenti personali che parlano di vita e di morte. Questo mi ha permesso di non utilizzare nulla di stereotipato.
Pensa anche solo ai gironi danteschi, o ad altri riferimenti ai quali non ho voluto attingere dichiarando la mia scelta sin dalla prima pagina. Si tratta di un oltretomba, un post mortem in cui tutti stanno insieme, non come succede in "Blade Runner", dove i reietti e gli sconfitti stanno ai piani bassi e i belli sfrecciano in alto, volando sulle loro macchine.
In campo fumettistico mi viene in mente "Mao Dante", di Go Nagai, quella visione ribaltata dei fatti e delle persone che ho cercato di interiorizzare e fare mia ne "Il Piccolo Caronte". Oppure le miniserie di Neil Gaiman e Chris Bachalo su Death, un personaggio ultraterreno che posa la falce, viaggia sulla Terra per vedere cosa succede e si fa un giro in metropolitana; una scena che ho voluto omaggiare nella mia storia.
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Come hai modellato la figura di Caronte?
Ho cercato di creare dei personaggi che rifuggissero immagini stereotipate, in particolare quella di Caronte. Non volevo che fosse un “semplice” traghettatore di anime, bensì un personaggio che accoglie le anime delle persone morte e spiega loro l’aldilà, come funziona il tempo ora che sono defunti. Il viaggio attraverso il fiume, dunque, non è una semplice traversata, ma una via per l’accettazione di questa nuova condizione. Ho voluto creare una figura legata a temi come la responsabilità e l'accettazione.
Distaccandoti da una narrazione più realistica, come hai filtrato le tue esperienze personali?
Anche in questo libro, come già in "Memorie a 8 bit" e "Storie di un’attesa", parto da un tema (in questo caso la vita e la morte) sul quale faccio delle riflessioni che poi si evolvono nel corso della storia. Voglio condurre i miei lettori da un punto iniziale A a un punto finale B, e durante questo cammino sviluppare i miei ragionamenti sul tema. Ne "Il piccolo Caronte" ho mantenuto lo stesso approccio lasciando i miei pensieri liberi di correre a briglia sciolta.
La figura di Mono, almeno nelle fasi iniziali, mantiene un atteggiamento di chiusura rispetto al ruolo cui è chiamato a ricoprire, rompendo una tradizione ancestrale. La tradizione è senza dubbio una peculiarità della tua terra, la Sicilia. Anche se hai spostato l'ambientazione in una dimensione ultraterrena, quanto c’è delle tue radici ne "Il piccolo Caronte"?
Per quanto non abiti più a Palermo, la mia città resta comunque incollata alla mia narrazione in maniera morbosa e viscerale. Non l’ho mai vissuta di riflesso, già "Storie di un’attesa" è un’opera su Palermo e credo che ne farò delle altre. Ho sempre cercato di capire le dinamiche che la animano, senza mai limitarmi a dire "questo mi piace", o "com’è brutto quest’altro".
Al fine di rendere credibile una storia, per me uno degli aspetti fondamentali è l’immedesimazione. Quando ho iniziato a pensare a Mono mi sono chiesto come avrei reagito se fossi stato al suo posto, come mi sarei comportato di fronte all’assunzione di una responsabilità così grande. E la posizione che ho assunto in questo caso è controcorrente rispetto a quello che invece tutti affermano oggi, ovvero la libertà di fare ciò che uno si sente di fare. Mono non ha una piccola bottega da rilevare e portare avanti, ma un ruolo di grandissimo rilievo, un ruolo che gestisce la vita e la morte. L’accettazione di qualcosa che non vorresti fare ma per la quale sei nato, una vocazione, potrebbe rivelarsi più bella di quanto immagini.
In questo caso, Mono è nato per ricoprire questo ruolo, ma ancora non lo sa. Non dice mai "Io vorrei fare un’altra cosa", ma semplicemente: "Io non voglio fare questo". Se avessi inserito anche una minima ambizione di Mono, mi sarei immedesimato troppo in lui e magari avrei dovuto creare un altro personaggio al suo posto. Io volevo un bambino che non vuole accettare questo ruolo.
In questo nuovo romanzo grafico non ti sei occupato direttamente dei disegni, lasciando questa incombenza a Deborah Allo. Hai ritenuto che il tuo stile, molto più asciutto e sintetico, non si adattasse bene a questo genere di racconto?
Quando ho iniziato a scrivere questa storia avevo già iniziato a realizzare alcuni disegni, che mettevo da parte. Con la consapevolezza che sotto l’aspetto grafico il mio punto di vista è molto diverso rispetto a quello di questa storia - e il fatto che preferisco più scrivere che disegnare - mi sono messo alla ricerca di una persona dotata non solo del giusto stile, ma anche che conoscessi bene. Deborah è stata una mia allieva alla Scuola del Fumetto a Palermo qualche anno fa. Quindi non la conoscevo solo artisticamente, ma anche come persona. Sapevo come avrebbe potuto affrontare emotivamente il libro. Nel caso de "Il piccolo Caronte" non si trattava di consegnare la sceneggiatura a qualcuno e fargliela disegnare. Avevo bisogno di una persona che aggiungesse qualcosa di suo nei disegni, e sapevo che Deborah avrebbe potuto farlo.
A quanto proposito, come si è sviluppato il lavoro tra te e Deborah? Quanto di tuo c’è nella creazione di scenari così affascinanti e quanta libertà hai concesso a lei?
Tralasciando piccole indicazioni che ovviamente le ho dato, l’immaginario è opera sua. Posso dire che si tratta di un libro a tutti gli effetti mio e di Deborah. Le mie sceneggiature, in precedenza, nascevano direttamente come storyboard, dove scrivevo i testi e i dialoghi direttamente vicino alle vignette. In questo caso ho stravolto il mio modo di lavorare ricopiando la parte narrativa in una sceneggiatura più canonica, evitando così che lei disegnasse quello che volevo io.
In fase di scrittura sono stato molto più attento a trasmetterle delle emozioni che non a darle indicazioni sulle inquadrature o altro. Ci sono stati degli interventi e ci sono state piccole correzioni, ma in linea di massima è andata benissimo.
Tema di quest’edizione di Napoli Comicon, il rapporto che lega in maniera sempre più indissolubile Fumetto e Web. Come vivi questa piccola grande rivoluzione in atto?
Io sono molto presente sul Web, sia sui social - per promuovere i miei lavori - che con dei tutorial su YouTube. Ogni cosa ha il suo potenziale, e deve essere sfruttato in modo giusto e corretto. Una delle massime che ho imparato ascoltando Fabrizio De André è non giudicare le cose solo dal mio punto di vista, ma provare a guardarle anche da un altro. Ecco, questa massima, che poi è alla base del mio modus operandi come scrittore, rappresenta lo spirito con il quale mi approccio a Internet, così come ai social: cercando sempre di capire e mai a giudicare aprioristicamente. Non so come si svilupperà la cosa, spero solo che possa andare sempre meglio.