LuccaCG18, Editoriale Cosmo: intervista a Louise e Walt Simonson
Abbiamo intervistato per voi Walt Simonson e Louise Simonson, decani del Fumetto americano
Alpinista, insegnante di Lettere, appassionato di quasi ogni forma di narrazione. Legge e mangia di tutto. Bravissimo a fare il risotto. Fa il pesto col mortaio, ora.
Louise, quando hai cominciato tu non c'erano molte donne nel mondo dei comics, mentre oggi ci sono moltissime disegnatrici e sceneggiatrici. All'epoca c'eravate tu, Ann Nocenti e poche altre a lavorare nel campo del mainstream. Come ti senti a tal proposito?
Louise - Penso di aver aperto alcune porte, ma c'è da dire che sono stata scelta e portata in questo mondo da uomini, che avevano una visione. Il fatto che i miei rapporti con loro fossero buoni, che abbiano apprezzato il mio lavoro, che tantissimi lettori maschi fossero disposti a comprare i miei fumetti... questo, io credo, ha aperto altrettante porte.C'è da dire che all'epoca non mi piaceva quando la gente mi definiva come una fumettista donna, perché quel che mi interessava era semplicemente essere un'autrice, come gli altri erano autori. Quel che è successo poi, però, è che tante ragazze giovani mi dicono che all'epoca ero un po' la loro eroina proprio per il mio ruolo di donna nei comics. Ed ecco che, all'improvviso ho cambiato prospettiva. Ora sono felice di quella definizione e di quel ruolo.
E cosa credi di aver portato, all'epoca, in termini di visione e di prospettiva sulle storie? Intendo come punto di vista sulla materia e sulla forma del narrare.Louise - Non credo di aver mai portato qualcosa di diverso in quanto donna. Credo che, nelle nostre menti, siamo tutti persone, non uomini o donne. La mia principale preoccupazione erano i personaggi e il modo in cui i personaggi avrebbero interagito fra loro. Certamente ci sono altri autori che hanno un'idea diversa di cosa sia una storia a fumetti. Ad alcuni, per esempio, piacerebbe metterci dentro solo grandi battaglie spettacolari. A me no, ma non dipende dal fatto che sia una donna. Anche tanti autori maschi hanno sensibilità simile alla mia.
Parlando dei personaggi che hai scritto per la Marvel, direi che hai avuto una lunga relazione con i mutanti. Cosa ti ha attratto di loro, all'epoca?
Louise - Quel che mi piaceva era il gruppo e il modo in cui interagiva al suo interno. Le personalità, non i poteri, che erano soprattutto una manifestazione di quelle personalità. Inoltre, i mutanti della Marvel hanno tra loro una dinamica molto particolare, non lineare. A volte si amano e a volte si detestano. Questo mi ha sempre attratta molto. Mi piacevano perché erano una famiglia.
A proposito di famiglia, non possiamo dimenticare il tuo Power Pack.
Louise - Esatto. Li adoravo proprio per quello.
Quando tu eri l'autrice delle storie mutanti, negli anni Ottanta, le storie portavano fortemente l'impronta del tema centrale della loro creazione: sono una minoranza e come tale venivano trattati. Oggi, questa componente sta forse tornando a galla, ma per molto tempo è stata meno visibile e in vetrina. Che ne pensi?
Louise - Forse, in parte, ne sono felice, perché significa che si raccontano storie diverse, senza che succeda quella cosa fastidiosa, nelle serie a fumetti, per cui sembra di leggere, a cadenza più o meno regolare, le stesse storie riprese all'infinito. Rimane però vero che il tema delle minoranze e del loro rispetto è qualcosa su cui dovremmo riflettere di più al giorno d'oggi e che meriterebbe delle risposte serie.
Ultima domanda: com'è andato il tuo ritorno su "Action Comics #1000"?
Louise - Ne sono felicissima, perché mi è sembrato di tornare agli anni Novanta e mi sono adattata all'istante, come se non mi fossi mai presa nemmeno un pausa. Ho scritto "Superman" per nove anni, quindi conosco benissimo il personaggio e il modo in cui interagisce con il suo mondo.
Avevo a disposizione una decina di pagine e ho convogliato la mia idea del personaggio. Per me, Superman è un uomo incredibilmente impegnato, cui arrivano sempre degli input, delle informazioni, delle richieste di aiuto che deve gestire la sua vita quotidiana e poi quella da super eroe, impossibile da tenere a bada. Perché, non appena si occupa di qualcosa, un nuovo guaio che sarebbe sua responsabilità risolvere gli si presenta. Consapevole di tutto com'è, è condannato a rincorrere questa esistenza, che lo bombarda di richieste. Questo è il mio tema, per quanto riguarda il personaggio, e mi sono divertita davvero un mondo.
Inoltre, ho potuto lavorare con Jerry Ordway, disegnatore che conosco davvero da una vita, ma che non ha mai disegnato per me. Un amico. Devo dire che è stato un piacere e ne sono davvero grata.
Walt, "Ragnarok" è figlio della tua voglia di tornare alle atmosfere e ai personaggi che avevi abbandonato tanto tempo fa, su "Thor". Com'è andata? Avevi delle storie nel cassetto, risalenti a quegli anni, che dovevi raccontare e non hai potuto, oppure si è trattata di un'ispirazione recente?
Walt - La storia è nata non molto tempo fa. Diciassette anni fa, un mio amico che lavorava per la WildStorm come editor, mi chiese se avevo intenzione di tornare a raccontare una storia ispirata ai miti nordici. All'epoca gli dissi che ci avrei pensato su, ma non l'ho fatto. Poi, un anno e qualcosa fa, l'ho chiamato e gli ho detto: "Mi è venuta un'idea!". Prima di allora non c'era nulla. La cosa, ovviamente l'ha sorpreso molto.
Quando ho scritto le storie per la Marvel, dal 1983 in poi, la mia idea, come per ogni fumetto che scrivo, era quella di raccontare qualcosa che nessuno avesse mai visto prima. Quindi, mi trovo su "Mighty Thor" e inizio a raccontare di altri personaggi che raccolgono il suo martello, una cosa che nessuno aveva mai fatto alla Marvel, a quei tempi.
La stessa cosa è avvenuta per "Ragnarok", una storia mai vista prima. E l'idea era quella della morte degli dei, una storia ambientata dopo quell'evento tragico. I cattivi, però, sono sopravvissuti. Per raccontare questa storia, ho dovuto escludere dalla vicenda il personaggio corrispettivo di Thor. Lui non c'è, il serpente di Midgard non è morto ed è lì per aiutare gli altri cattivi. Insomma, ho cancellato Thor dal presente e dal passato, senza che nessuno, nemmeno io, sapesse dove fosse andato e cosa gli sia successo. Ora lo sappiamo, ma non all'epoca. Una storia che nessuno aveva mai sentito e che quindi mi interessava moltissimo.
Tu sei responsabile di uno dei momenti di maggiore epica della mia esistenza. C'è un passaggio arcinoto, nel tuo ciclo di storie su "Mighty Thor" legate al "Ragnarok", in cui Odino, Thor e Loki affrontano assieme Surtur. Il Padre di tutti dice "Per Asgard", Thor pronuncia le parole "Per Midgard" e Loki chiude con "Per me stesso". Per me quella è epica visiva e narrativa. Una cosa in cui tu eccelli da sempre. Qual è la ricetta?
Walt - Non c'è. Quel momento è semplicemente aderente ai personaggi, che sono epici di loro. Quelle pochissime parole hanno forza perché appartengono davvero a chi le pronuncia.
Ma è importante, per l'epica a fumetti, asciugare molto le parole, essere pulitissimi nel racconto e lasciare che siano i fatti a parlare? Perché credo che questo sia un po' il tuo modus operandi.
Walt - Probabilmente sì. Si tratta sempre del rapporto che c'è tra i fatti e i personaggi. In quel momento avevo tutti gli ingredienti a disposizione. C'era questa storyline enorme che coinvolgeva Surtur, c'era un istante di svolta importante, c'erano loro tre, una famiglia conflittuale di fronte al disastro. Ho avuto soprattutto la fortuna di creare delle parole che riassumessero le loro personalità.
Epica è distillare il momento e lasciare che quel che hai costruito esploda in un momento? Cosa che credo tu faccia da maestro.
Walt - Sì, direi di sì. E se ci sono riuscito, è solo perché sono caracollato addosso alle cose, per poi capire cosa avevo fatto soltanto dopo, a lavoro finito. Il fatto è che ho sempre letto un sacco di fantasy e di fantascienza, alcune delle mie letture preferite mescolavano i miti con visioni di futuro possibili, tecnologia fantasiosa.
Ho anche tratto molta ispirazione da Stan Lee e Jack Kirby, che anni prima di me hanno mescolato questi generi in maniera proficua. E, per me, andare alla ricerca dell'epica è sempre stato qualcosa di molto naturale, non particolarmente premeditato. Un istinto che è venuto dalle mie letture di ragazzo, qualcosa di cui sono andato in cerca poi nel mio lavoro.