Killers of the Flower Moon, Scorsese su Lily Gladstone: "Avevamo bisogno di lei per raccontare la storia di quelle donne"

Martin Scorsese racconta alla premiere di Los Angeles la genesi di Killers of the Flower Moon e il contributo di Lily Gladstone

Condividi

LOS ANGELES - Ambientato negli anni '20 nella contea di Osage, in Oklahoma, Killers of the Flower Moon racconta di una serie di omicidi avvenuti tra la popolazione di nativi americani Osage, diventati improvvisamente ricchi in seguito alla scoperta di giacimenti di petrolio nella zona. La sequenza di quei crimini brutali fu al centro della prima grande indagine criminale condotta dall’FBI che all’epoca era ancora in fase embrionale (e da un giovane J Edgar Hoover che divenne poi il direttore dell'agenzia governativa statunitense).

Al centro della storia William K. Hale (interpretato da Robert De Niro) importante allevatore di bestiame e uomo d'affari dell’epoca che spinse suo nipote Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio), reduce della Prima Guerra mondiale, a sposare la nativa della comunità degli Osage, Mollie Kyle (Lily Gladstone).

Il film è una produzione Apple Original Films ed è stato scritto da Martin Scorsese e da Eric Roth (Forrest Gump, Dune, Ali, Munich, Il curioso caso di Benjamin Button e A Star Is Born).

Nel cast anche Jesse Plemons, Brenda Fraser, John Lithgow, Louis Cancelmi, Tantoo Cardinal.

In occasione della premiere del film che si è tenuta a Los Angeles presso lo storico Dolby Theater di Hollywood, noi di Badtaste.it insieme ad altri giornalisti abbiamo incontrato Scorsese, che con Killers of the Flower Moon torna al cinema dopo The Irishman del 2019 e il documentario per Netflix, Fran Lebowitz: una vita a New York, del 2021.

Nel 2017 l'autore David Grann ha riportato l'attenzione su questa vicenda a lungo dimenticata nel libro “Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the FBI” (pubblicato in Italia con il titolo Gli assassini della terra rossa, ndr), da cui il film è tratto. Come è stato il processo di trasformazione del libro in sceneggiatura?

Abbiamo affrontato la sceneggiatura sulla base del libro che è eccellente ma che ha anche il sottotitolo "La nascita dell'FBI", quindi gli argomenti erano molto vasti. A questa difficoltà si sono poi aggiunte le cose che ho scoperto le volte in cui siamo andati in Oklahoma per incontrare la comunità degli Osage. Il mio primo incontro è stato con il capo, Standing Bear, e il suo gruppo: Julie e Addie Roanhorse e Chad Renfro.

Come è stata recepita l’intenzione di girare il film sulla questione?

È stato molto diverso da quello che mi aspettavo. Erano estremamente cauti. Ho dovuto spiegare loro nel modo più onesto e sincero possibile che non volevamo cadere nella trappola dei cliché dei nativi vittime o dell'indiano ubriaco, ma che volevamo raccontare la storia nel modo più diretto possibile. Quello che non avevo capito bene durante i primi due incontri è che si tratta di un problema attuale in Oklahoma.

In che senso?

In altre parole, si tratta di questioni di cui le vecchie generazioni non hanno mai parlato alle nuove generazioni, anche se le persone coinvolte sono ancora lì, cioè le famiglie sono ancora lì, i discendenti sono ancora lì. Incontrandoli, cenando con loro, in particolare con Margie Burkhart, parente di Ernest Burkhart, è che molti dei bianchi, molti degli europei-americani, in particolare William “Bill” Hale, erano dei buoni amici. All'epoca la gente non credeva che Bill fosse capace di fare certe cose.

Quali altri aspetti sono stati fondamentali nella stesura della sceneggiatura?

Margie mi ha parlato del fatto che bisogna ricordare che Ernest, il suo antenato, amava Mollie e Mollie amava Ernest. La loro è una storia d'amore. Da lì la sceneggiatura si è spostata in quella direzione. Ed è stato allora che Leo Di Caprio ha deciso di interpretare Ernest Burkhart al posto dell’agente governativo Tom White (interpretato da Jesse Plemons). A quel punto abbiamo iniziato a rielaborare tutto. È diventata una storia di complicità e di peccato per omissione. Una complicità silenziosa in alcuni casi.

Il film è ambientato in Oklahoma e lei è stato irremovibile nel voler di girare il film lì. Quando è stata la prima volta che ha visitato Oklahoma?

Credo che la prima volta sia stata nel 2019. Non ricordo benissimo perché le riprese di The Irishman, la realizzazione della CGI sul film e la sua post-produzione sono state molto lunghe: quattro mesi, cinque mesi. E poi c’è stato il COVID. Ma ricordo che siamo stati lì almeno due volte prima della pandemia. E per me, da buon newyorkese cresciuto nel Lower Eastside di New York, sono estremamente urbano, così urbano che mi ha sorpreso scoprire che il sole tramonta a ovest. Una volta, circa 30 anni fa, stavo guidando lungo Sunset Boulevard qui a Los Angeles e ho visto il sole tramontare. Ho pensato: "È fantastico. È il Sunset Boulevard. Il sole tramonta a ovest. Ora ho capito".

Qual è stata la sua impressione? Cosa l’ha colpito dell’Oaklahoma?

Le praterie, che sono davvero notevoli, ti aprono la mente e il cuore. Sono semplicemente bellissime. Le strade sono dritte e infinite e su entrambi i lati ci sono cavalli selvaggi, bisonti e mucche. I cavalli selvaggi passano la loro vita al pascolo. È stato idilliaco vederlo per la prima volta. E poi ho cominciato a capire che quella stessa terra poteva essere sinistra. In un posto come questo non vedi persone per chilometri. Si può fare di tutto, figurarsi cento anni fa.

Questo è un aspetto fondamentale della storia.

Sì, perché è un posto dove non c'è bisogno della legge. Voglio dire, la legge c’è, ma la legge non funziona in quel modo. La legge puoi farla funzionare a tuo favore se sei abbastanza intelligente. Molte persone lo hanno fatto e lo fanno. Quello che voglio dire è che è ancora un territorio aperto, quindi il luogo, per quanto bello, può diventare molto cupo. Quello che volevo catturare, in definitiva, era la natura stessa del virus o del cancro che crea questo senso di genocidio disinvolto. Ed è per questo che abbiamo scelto la storia di Mollie ed Ernest, perché la base dell'amore è la fiducia e un tradimento fatto in quel modo, è davvero profondo.

Come ha iniziato a immaginare lo svolgimento del film?

Una volta lì mi sono detto: "Dove metto la macchina fotografica in questo punto? Quanto cielo devo prendere? Quanta parte della prateria? Meglio 1.85:1 o 2.35:1? Dobbiamo fare a 2,35, giusto?". Tra l’altro, quando mi hanno detto: “Marty, stiamo facendo un film d'epoca”, ho pensato: "Cosa?". Per me il 1920 è 50 anni fa, perché sono nato nel '42, quindi gli anni '20 sono come gli anni '90 per i giovani di oggi.

Quali misure avete adottato con il team di produzione per garantire che la comunità Osage si sentisse accuratamente rappresentata?

Quando mi hanno dato il libro la prima volta, mi sono ricordato di quando ho avuto un'esperienza con gli indigeni e i nativi americani, negli anni '70. È stata la prima volta in cui ho iniziato a prendere coscienza della natura di quella che era ed è, ancora oggi, la loro situazione. Prima non ne ero affatto consapevole. Ero troppo giovane. Mi ci sono voluti anni e quando mi sono trovato a girare il film mi chiesto come si potesse trattare quella cultura in modo rispettoso e non agiografico. Mi sono chiesto quanto potessimo essere sinceri per mantenere l'autenticità, il rispetto, la dignità e affrontare la verità in modo onesto, nel miglior modo possibile.

Come si è risposto?

Coinvolgendo la cultura dell'Osage e inserendo elementi culturali, rituali, momenti spirituali, giocando con il contrasto tra quel mondo e il mondo bianco-europeo. Quando ho letto il libro, ho pensato che potesse proprio essere la storia giusta per rendere giustizia alla loro cultura.

Come volevate raccontare la storia, storicamente ma anche emotivamente?

La costante era l'accuratezza storica, anzi dovrei usare la parola veritiera. Abbiamo avuto molto, molto, molto sostegno da parte dell'autorità dell'Osage, degli esperti, Johnny Williams e molte altre persone, che ci davano indicazioni su come affrontare queste cose. E così, con loro, abbiamo testato l'accuratezza dei rituali, i nomi dei bambini, i matrimoni, i funerali, tutto questo genere di cose.
In alcuni casi c'è stato un margine di manovra perché, le ultime due generazioni di Osage hanno dimenticato o comunque sono state escluse dalla loro cultura perché dovevano diventare, come dire, bianchi europei, cristiani, cattolici, o altro, e così si sono dimenticati di tutto questo. Hanno imparato a rimettere insieme pezzi della loro cultura attraverso il film. E noi li seguivamo: se un personaggio metteva la coperta in un determinato modo, oppure il nome del bambino era un nome specifico, qualcuno diceva: "Forse è così". Un altro magari diceva: "No, forse è così ". Un'altra ancora: "Hai questo spazio per giocare e avere un po' di licenza creativa". Quindi, è così che abbiamo fatto per tutto il tempo. Ora poi c'è anche una nuova rinascita dell'apprendimento della lingua. Avevamo degli insegnanti di lingua e Lily Gladstone l’ha imparata, così come Di Caprio e De Niro, che se ne è innamorato e ha voluto girare altre scene in Osage.

A proposito di Lily Gladstone, che interpreta Mollie, la moglie di Ernest. Quando hai deciso che fosse l’attrice giusta per il ruolo?

Ellen Lewis me l'ha mostrata in Certain Women, il film di Kelly Reichardt. Ho pensato che fosse fantastica. Poi è arrivato il COVID e non siamo riusciti a incontrarci. Così, dopo che la pandemia si era calmata, ci siamo incontrati su Zoom. E sono rimasto molto, molto colpito dalla sua presenza, dalla sua intelligenza e dall'emozione che le si legge in volto. Si vede che c'è qualcosa dietro i suoi occhi. Si percepisce.

Quale è stata la prima cosa che avete girato con lei?

La prima grande scena che abbiamo girato è stata una delle mie preferite, quella in cui lei cena da sola con Ernest, il personaggio di Leo Di Caprio. E lo interroga. Cosa ci fai qui? Qual è la tua religione? E poi si comincia a vedere il collegamento tra i due, quando lei dice: "Ah ah ah, Coyote vuole i soldi", e sorprendentemente lui risponde: "Esatto. Io amo i soldi". Questa è l'altra cosa. Lei sa a cosa va incontro, e anche le sue sorelle. Anche la scena in cui lui la sta accompagnando in taxi, ed è solo un'inquadratura. Lui dice: "Voglio vedere chi parteciperà a questa corsa di cavalli" e lei risponde in Osage. Lui chiede: "Cosa hai detto?" e lei lo ripete di nuovo in Osage. E lui risponde: "Beh, non so cosa tu abbia detto, ma credo sia la versione Indiana di bello e pericoloso". È un'improvvisazione di Leo e lei lì ride davvero. In quel momento, c'è una relazione vera e propria tra i due attori. Questi sono stati i due momenti in cui ci siamo sentiti molto a nostro agio con lei. Abbiamo anche avuto la sensazione di avere bisogno di lei per aiutarci a raccontare la storia di quelle donne. Ci siamo sempre confrontati con lei e abbiamo lavorato con lei sulla sceneggiatura. C'erano scene che venivano aggiunte e riscritte continuamente.

Questo è il suo decimo film con Robert Di Niro e il sesto con Leo Di Caprio. Perché è tornato così spesso da loro nel corso degli anni?

Nel caso di Robert De Niro, siamo stati adolescenti insieme e lui è l'unico che sa davvero da dove vengo, le persone che ho conosciuto e hanno fatto parte della mia giovinezza. Alcuni di loro sono ancora vivi. Lui li conosce. Io conosco i suoi amici, i suoi vecchi amici, e abbiamo avuto un vero e proprio banco di prova negli anni '70, dove abbiamo provato di tutto e abbiamo scoperto che ci fidavamo l'uno dell'altro. È tutta una questione di fiducia e di amore. E questa è una cosa importante, perché molto spesso se un attore ha molto potere, e lui ne aveva molto all'epoca, può prendere il controllo del tuo film.

E con lui non è mai successo?

Con lui non l'ho mai temuto. Non l'ho mai sentito. C'era libertà, si sperimentava e non si aveva paura di nulla. Non avevo paura di fare qualcosa. Lo facevo e basta. Anni dopo mi disse che avrei dovuto lavorare con questo ragazzo, un certo Leo Di Caprio, un ragazzino, con cui aveva lavorato in Voglia di Ricominciare nel 1993. Me lo disse in modo molto casuale. Ma una cosa del genere, una raccomandazione a quel tempo, non è casuale. Lo disse con disinvoltura, ma raramente diceva cose di quel tipo, raramente dava raccomandazioni. Così passano gli anni e mi viene presentato Leo, con cui ho poi ho fatto Gangs of New York.

Aveva ragione De Niro dunque?

Lui ha reso possibile quel film, in realtà. Gli piacevano i film che avevo fatto e voleva esplorare lo stesso territorio. Poi abbiamo sviluppato un rapporto più stretto quando abbiamo girato The Aviator e, verso la fine qualcosa è accaduto tra noi, non ne sono sicuro, ma siamo entrati in sintonia in alcune scene.

E poi c’è stato The Departed.

Sì e ci siamo avvicinati ancora di più. Durante quel periodo, abbiamo scoperto che, anche se abbiamo 30 anni di differenza, lui ha una sensibilità simile alla mia. Un giorno viene da me e mi dice: "Ascolta questo disco", ed è un disco di Louis Jordan ed Ella Fitzgerald. Ci ero cresciuto con quel disco. Oppure una volta mi chiama e mi dice: "Sai, avevo il raffreddore e mi sono messo a guardare i film di Criterion Collection, volevo recuperare alcuni di questi classici, e ho visto questo film incredibile. È un film giapponese. Si chiama Viaggio a Tokyo. L'hai mai visto?". Ho detto: "Sì”. Ma mi ci erano voluti alcuni anni per apprezzarlo. Non riuscivo nemmeno a capire lo stile di Ozu all’inizio, vedendolo per la prima volta negli anni '70, perché eravamo abituati a Orson Wells. E quel ragazzo invece l'aveva capito guardandolo su un schermo televisivo.

Trovate tutte le notizie su Killers of the Flower Moon nella nostra scheda.

Continua a leggere su BadTaste