Jean-Pierre e Luc Dardenne: "Vogliamo responsabilizzare il pubblico con La Ragazza Senza Nome"
I fratelli Dardenne raccontano lo strano rapporto con il senso di responsabilità in La Ragazza senza Nome e l'intento con il quale fanno film
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Li abbiamo incontrati per capire cosa stia accadendo al cinema d’autore e prima di tutto ai loro film. Visto che i due hanno sempre affermato di essere una persona sola con quattro occhi e visto che rispondono alternandosi ma ripetendo spesso di essere d'accordo con quanto affermato dal fratello, per praticità, riportiamo le loro risposte come date da una persona sola.
Le vostre storie con sempre più insistenza hanno a che vedere con il concetto di responsabilità, con personaggi che lottano per capire se siano responsabili o meno. Vi pare un argomento determinante oggi?
DARDENNE: “In questo caso di certo c’è la responsabilità di una donna che si sente colpevole di non aver aperto la porta ad una persona che poi è morta, ma è anche molto sulla memoria. La nostra protagonista cerca di ridare un nome a questa donna morta affinché possa rientrare a far parte della società, della comunità degli esseri umani. Senza è destinata a scomparire per sempre”.
All’ultimo festival di Cannes il vostro non era l’unico film che giocava con il senso di responsabilità e stringeva con il pubblico un rapporto particolare, suscitando domande su quanto i personaggi siano responsabili di ciò che gli accade. Anche il film di Christian Mungiu (Bacalaureat) e quello di Asghar Farhadi (The Salesman) miravano a quello. Pensate sia qualcosa che esce dal periodo che viviamo?
D: “Beh già è difficile parlare dei nostri film, figuriamoci di quelli degli altri! E poi nemmeno li abbiamo visti… Ad ogni modo se anche in quei film ci sono personaggi che si confrontano con il tema della responsabilità, forse è un modo per rispondere al mondo di oggi in cui nessuno si vuole attribuire la responsabilità di nulla, sembriamo tutti vittime delle condizioni o delle azioni degli altri, invece che assumerci il peso delle nostre decisioni”.
Di certo voi nei vostri ultimi film fate di tutto per lasciare lo spettatore senza risposte. Quando sembra di aver capito quali siano le forze in campo e chi possa essere ritenuto imputabile degli eventi arriva un colpo di scena che rimescola le carte.
D: “Riguardo La Ragazza Senza Nome quel che vogliamo è che l’immagine della giovane donna morta che arriva a possedere la mente della dottoressa Jenny, accompagnata dai silenzi necessari affinché le persone che lei incontra si decidano a parlare e dire quel che sanno, infesti anche gli spettatori. Perché la dottoressa la parola la trova subito, gli altri invece devono decidersi. Ecco vorremmo che quest’immagine di silenzio tornasse nella mente dello spettatore, così da condividere il senso di colpa, se non altro per la durata della proiezione e magari anche dopo, in modo da interrogarsi sulla faccenda. Vorremmo non uscisse dalla sala come niente fosse. Ci piacerebbe che, in senso buono, lo spettatore venisse traumatizzato dalla finzione”.
È più la voglia di scuotere lo spettatore con un’emozione forte, o proprio il desiderio di spingerlo ad avere a che fare con il senso di responsabilità?
D: “Volevamo suscitare un’emozione morale ma non soltanto negli spettatori europei, non crediamo che solo loro debbano sentirsi in colpa, anche la sorella della vittima e il protettore si sentono in colpa. Ma attenzione! Non vogliamo fare i moralisti, non vogliamo fare quelli che lanciano accuse. Vorremmo che lo spettatore si sentisse in parte responsabile della sorte della donna, mettendosi nei panni di Jenny”.
Nei loro primi film di finzione sembravano portare avanti il loro lavoro precedente da documentaristi, cioè mostravano realtà, posti o personaggi che nessuno racconta. Ma ora lo fanno sempre meno, i protagonisti dello loro storie fanno sempre più parte delle categorie umane più vicine agli spettatori. Che cambiamento è?
D: “Credo sia più una questione di obiettivi. Quell’immagine di cui parlava mio fratello, quella che vorremmo tornasse ad infestare la mente degli spettatori dopo la visione del film, è la materia della riflessione che ci piacerebbe stimolare: tracciare un’analogia tra la lotta per arrivare alla verità di Jenny e la gestione del senso di colpa rispetto alla situazione europea attuale. Una porta che non viene aperta e un cadavere ritrovato vicino ad un corso d’acqua non possono non scatenare un’eco su quel che accade in Europa rispetto ai migranti. Il nostro sogno è che la vicenda di questa dottoressa e il suo percorso possano far riflettere lo spettatore su quella situazione e i nostri atteggiamenti nei suoi confronti.
Naturalmente tutto ciò senza fare prediche o pretendere di insegnare nulla, vogliamo condividere dei sentimenti, quelli di una situazione di questo genere, farli provare anche allo spettatore. Odiamo i film che fanno la paternale”.Da sempre dite che le vostre storie non riguardano le classi sociali, ma solo individui. Questa cosa un regista di cinema d’autore di 40 anni fa non l’avrebbe detta mai, anzi si mirava all’esatto contrario. Cos’è cambiato? Il mondo o il cinema?
D: “In realtà il nostro intendere il mestiere di cineasti non prevede il raccontare storie per esporre teorie o tesi. Al contrario, ad interessarci è il racconto di singoli individui nella loro complessità e nei loro conflitti come per Il Matrimonio di Lorna. Poi sono gli spettatori a fare quel che vogliono di queste storie. Per noi l’arte cinematografica sta nel far esistere dei soggetti singoli, è questo l’importante, guardare degli esseri viventi in modo da arrivare a mostrare dei dettagli sui quali il pubblico non avrebbe mai riflettuto, spostare il modo in cui le persone guardano gli altri, così da aprirgli una prospettiva o un’angolatura diversa. E non: fare propaganda!
Poi è chiaro che se prendiamo il padre di Igor in La Promesse, che è un operaio disoccupato, quello ci dice molto della tradizione operaia e di quel tipo di lotta, perché a quella categoria appartiene. Ma non è mai quello il punto per noi, solo il mostrare un individuo”.