Come due registi hanno realizzato Tatami in 27 giorni dentro uno stadio e con atlete georgiane

In un'intervista Guy Nattiv e Zar Ebrahimi raccontano come hanno girato Tatami collaborando per la prima volta e con poche risorse

Critico e giornalista cinematografico


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Nell'intervista per l'uscita italiana di Tatami abbiamo parlato con Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi, sceneggiatori e registi (e attrice!) per la prima volta in coppia

Ci sono ragioni culturali e di accuratezza dietro al fatto che Tatami è diretto da due registi, Guy Nattiv (israeliano) e Zar Amir Ebrahimi (iraniana), la seconda un’attrice nota da noi per Holy Spider che da tempo cullava l’idea di passare alla regia. Il punto era per Nattiv, da cui parte il progetto, di avere qualcuno nella parte creativa che potesse raccontare bene la cultura iraniana. Ma lo stesso non è stato facile, primo perché accettare una collaborazione tra un israeliano e una iraniana comporta diversi problemi per ognuno dei due, e secondo perché nessuno dei due era più abituato a fare film con così pochi soldi.

Eppure Tatami non solo è un capolavoro, ma è stato selezionato a Venezia ed è stato uno dei film più apprezzati dello scorso festival. Ora esce in Italia, dal 4 aprile è in sala, e abbiamo parlato con i due registi per capire come lo hanno fatto.

La grande idea che sostiene il film è quella di raccontare una diserzione intrecciata a un torneo, tra incontro e incontro. Quando hai capito che potevate intrecciare le due cose?

GUY NATTIV: Nel 2020 ho iniziato a scrivere e mi è venuta questa idea del judo, che è uno sport molto popolare sia in Israele che in Iran. In più c’era stato un caso simile a quello che raccontiamo.

Quale?

GN: Se non sbaglio capitò nel 2019 ai campionati mondiali di Judo di Tokyo. Ho anche contattato le persone che erano state coinvolte in quella storia, quelli della federazione internazionale di Judo, che avevano un sacco di informazioni. E poi ho sentito questo allenatore iraniano che ora sta nella squadra dei rifugiati.

Quando hai pensato di scriverlo e girarlo in due?

GN: Quasi subito. Mi era chiaro che non sapevo niente di cosa possa passare un’atleta iraniana, mi serviva qualcuno che rendesse il film autentico e così ho contattato Zar online e le ho offerto di scriverlo e svilupparlo insieme. Ma non è stato solo un supporto, Zar quando è arrivata ha cominciato ad ampliare e approfondire la sceneggiatura per renderla autentica  e non tipo la percezione americana di una storia di questo tipo. E da quando mi sono aperto a questa collaborazione è cambiato tutto.

Tu avevi già in mente di fare la regista?

ZAR AMIR EBRAHIMI: Si stavo proprio preparando il mio primo lungometraggio.

E tu lo sapevi?

GN: Avevo fatto i compiti.

ZAE: Alla fine sono anni che faccio corti, principalmente a Parigi, e anche documentari, quindi diciamo che era parte dei miei piani passare alla regia. Lo stesso non è stata una decisione facile, anche se poi io sono anni che contribuisco ai film in cui recito senza essere accreditata.

Perché ci hai dovuto pensare? Visto quello che volevi sembra l’offerta che desideravi?

ZAE: Perché avevo le mie paure legate a lavorare con un israeliano. Io sono cresciuta in un paese in cui persone come Guy sono il nemico. Se cammino per strada una volta con un israeliano sono automaticamente una spia. Non è facile decidere una cosa simile. Ero preoccupata anche per la mia famiglia e i miei amici che lavoravano con me. Tutti infatti mi invitavano a stare attenta e a pensarci bene. Ma alla fine anche i miei collaboratori più stretti, esattamente quelli che dopo questa decisione non avrebbero più potuto lavorare con me, mi hanno detto che dovevo farlo. C’è voluto coraggio per rompere questa barriera ma una volta fatto ti torna indietro molto di più.

Come vi siete divisi il lavoro sul set?

GN: Ci abbiamo messo poco a capire come collaborare. Zar più che altro seguiva gli attori, soprattutto perché parla e capisce la loro lingua e poi perché è una grande direttrice di attori, io mi occupavo più degli aspetti di ripresa, ma spesso ci scambiavamo. Entrambi eravamo al monitor a prendere le decisioni su ogni ciak. Ci guardavamo e se andava bene a entrambi si procedeva. Ed è stato pazzesco a un certo punto realizzare che, O mio Dio, lo stavamo davvero facendo. Stavamo collaborando.

ZAE: Era una delle mie molte paure. Come potremo collaborare, i registi sono le persone più accentratrici del mondo, come possiamo mettere d’accordo i nostri ego? Ma ce l’abbiamo fatta.

Vi dovevate sbrigare visto il tipo di produzione, eppure ci sono sequenze abbastanza, complicate, specialmente quelle che riguardano i combattimenti di judo, o quelli in cui si parla e si cammina.

ZAE: La protagonista è arrivata con 3-4 mesi di allenamento sulle spalle e ha un passato nella boxe, che è uno sport diverso ma comunque è una sportiva. Poi avevamo un coach che ci ha preparato da remoto da L.A. e la coach di judo della nazionale georgiana, dove abbiamo girato. Anche tutti gli atleti che vedi sono tutti veri atleti di judo georgiani.

Anche la sfidante israeliana?

GN: No lei è un’attrice israeliana che si è preparata. E per ottimizzare mentre noi lavoravamo alla coreografia dei combattimenti Zar lavorava con le altre attrici.

Alla fine in quanto tempo avete girato?

ZAE: Mi pare 27 giorni.

GN: Avrebbe fatto comodo un’altra settimana

Per fare cosa?

ZAE: Per non dover fare tutto con uno massimo due ciak.

GN: Sia io che Zar prima avevamo fatto film con molti più soldi e tornare a fare un film in 27 giorni e pochi fondi non è stato facile.

ZAE: I georgiani non capiscono bene l’inglese, tutto il cast veniva da paesi diversi, non era facile comunicare sul set.

Perché il bianco e nero?

GN: Perché queste donne vivono in un mondo in bianco e nero. Se ti dicono di non competere non competi, non ci sono zone grigie. Ed è quello accade in quello stadio. Inoltre il bianco e nero è più astratto, ti dà l’idea che questa storia potrebbe svolgersi in qualsiasi epoca e con qualsiasi altro conflitto.

Come è percepito questo film in Israele?

GN: Credo sia un film che può essere apprezzato dagli israeliani che hanno una certa mentalità, incline a quello che il film dice. Le nuove generazioni più che altro. Gente che vuole un cambiamento e un governo diverso. Chi vuole conoscere gli iraniani. E poi ci sono moltissimi iraniani in Israele, credo che quando il film uscirà lì saranno i primi ad andarlo a vedere. 

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