INTERVISTA: Jacopo Masini ci parla del suo lavoro per Ed Gein - La madre di tutti i serial killer
Abbiamo intervistato Jacopo Masini, sceneggiatore di Ed Gein, fumetto che ritrae uno dei primi serial killer
Alpinista, insegnante di Lettere, appassionato di quasi ogni forma di narrazione. Legge e mangia di tutto. Bravissimo a fare il risotto. Fa il pesto col mortaio, ora.
Un po' cronaca, un po' fotografia di una mente allucinata e dell'ambiente che l'ha partorita, Ed Gein ci ha colpiti per la sua asciutta e composta spietatezza. Abbiamo rivolto qualche domanda al suo sceneggiatore, che ci ha gentilmente risposto come potete leggere qui sotto:
Innanzitutto, da dove viene l'idea? Sicuramente sei un appassionato di gialli e di crime story, ma qui c'è la volontà di scavare oltre la narrazione e di mostrare quel che c'è di reale alle sue spalle. Credi che sia importante, per apprezzare certa letteratura, metterla in relazione con il mondo reale?
Diciamo che ho iniziato a leggere seriamente grazie alle storie horror e ai gialli. In particolare grazie a Stephen King, a Clive Barker, a Lovecraft, Poe e Conan Doyle. È stato una specie di imprinting che mi ha segnato.
Non è un caso che lavori a saldaPress, in fondo. L’idea è nata mentre stavo lavorando a un redazionale di "The Walking Dead". Volevo scrivere un pezzo sui Sussurratori – per chi non lo sapesse, è un gruppo di tizi fuori di testa che vivono in simbiosi con i non-morti e vanno in giro indossando la pelle dei cadaveri – e mi è venuto da pensare che avessero molte cose in comune con Leatherface. Da lì è saltato fuori Ed Gein, ho studiato un po’ la sua storia e ho pensato che sarebbe stato magnifico raccontarla a fumetti.Ed era una persona in carne e ossa, ma anche molti dei personaggi di King potrebbero esistere davvero. Raccontare le loro storie è un modo per raccontare i confini più remoti della nostra psiche. Confini reali.
La narrazione è un ritratto a ritroso, non un thriller. Hai voluto tracciare una fotografia del personaggio, rinunciando completamente a ogni componente investigativa. Mi hai fatto pensare a "Mindhunter" e a una certa parte di narrativa di genere che si concentra sul profiling psicologico dei serial killer, ultimamente di grande successo. Conosci? Apprezzi? Pensi che sia una strada fruttuosa in generale?
Ho visto "Mindhunter" dopo che avevo già concluso la prima stesura della sceneggiatura del fumetto e ne sono rimasto folgorato. Tanto che ho letto anche il libro che ha più o meno ispirato la serie TV e che racconta tutta la parabola lavorativa di John Douglas.
Credo sia una strada estremamente fruttuosa, da un sacco di punti di vista. Nel senso che gli aspetti investigativi – che nella mia storia non esistono per il semplice fatto che non ebbero alcun peso, nel caso Gein – sono marginali. Talvolta sono appassionanti, come nel caso di Unabomber, ma il fulcro di quel tipo di vicende è capire come, quando e perché il cervello di quelle persone è andato in cortocircuito. Sono tutte persone spaventosamente simili a noi.
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Trovo interessante la scelta di un espressionismo tutto sommato non così esagerato nel ritrarre gli eventi e i personaggi. Francesco Paciaroni non fa paura, ma inquieta con le sue matite. Anche questa una scelta precisa?
Direi di sì. Nel senso che quando Luca Blengino – editor della serie – mi ha mostrato i disegni di Francesco mi sono piaciuti subito. Mi ha fatto pensare al modo in cui lavora Adlard su "The Walking Dead": l’uso dei neri, il tratto ruvido, una grande economia dei mezzi al servizio della storia. E ho pensato che fosse perfetto per quelle atmosfere, che volevo fossero torbide, ma senza essere truculente. Non doveva esserci esibizionismo, ma volontà di mostrare la storia, quella storia.
La narrazione è quasi perfettamente divisa in due, quanto a focalizzazione. Per metà vediamo con gli occhi della gente, per metà con quelli di Ed Gein e sappiamo quanto sia vittima, oltre che carnefice. Il male assoluto non esiste ed è invece sempre contingente, per te?
È una delle cose che mi sono domandato dopo aver scoperto la storia di Ed Gein. Una delle cose che mi ha affascinato di più: cosa lo ha spinto? Era davvero e semplicemente un mostro? Poi ho letto diverse cose, anche di psicologia della violenza, per così dire. E considera che io, a mio tempo, ho fatto una tesi di laurea sulla figura del nemico durante gli anni 1943 - 1945, quindi è un tema che mi ha sempre appassionato.
Per farla breve, no, non credo esista il male assoluto. Esistono circostanze, a volte imprevedibili, che possono spingere le persone – qualunque persona – a commettere cosa abominevoli e imprevedibili. Per questo è necessario coltivare continuamente la propria umanità: è l’unico antidoto.
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Tutti i personaggi portano in faccia dei segni. Sembrano sudaticci, malaticci, dalla pelle rovinata. Solo una società deforme è destinata a partorire una deformità come Gein?
È curioso, perché è una delle cose che ho chiesto a mia volta a Francesco. Quella è una scelta tutta sua, io non gli ho dato indicazioni in tal senso. Ma è una peculiarità perfettamente funzionale alla storia. È una storia di corpi malati, di corpi smembrati e riutilizzati, una storia che racconta l’ambiente malsano in cui è cresciuto Gein, quindi, quei segni, sono una sorta di emblematica pestilenza che ha infettato tutti.
Le pagine della storia non sono molte, ma non si tratta di una lettura agile. Spingete a indugiare sui particolari, a riflettere. Come hai reso questo dettaglio in fase di sceneggiatura?
In realtà non è neanche così breve, considerando il numero di vignette per pagina. Se avessimo divisa la griglia in cinque, sei vignette per pagina, saremmo arrivato a una ottantina di pagine in tutto. Ma la collana è pensata alla francese e io, in fase di sceneggiatura, ho voluto aggiungere alcuni dettagli ulteriori, proprio per lavorare sull’atmosfera horror della storia.
Ad esempio, certe micro-vignette le ho inserite pensando a "Outcast". Ho avuto la fortuna di passare un po’ di tempo con Paul Azaceta e abbiamo parlato anche dell’uso dei dettagli nella serie scritta da Kirkman. E diceva che quei dettagli, in fumetto horror, servono a sostituire due elementi fondamentali nel canone del genere, ma a livello cinematografico. Due elementi che, per forza di cose, nel fumetto non ci sono: i rumori e le musiche. Tutti quei dettagli dovevano spingere il lettore dentro quell’atmosfera, tenerlo stretto all’orrore di quella vicenda.
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E adesso? Ti rivedremo presto nei panni di sceneggiatore? Magari con una storia di tema paragonabile?
E adesso spero proprio di sì, perché scrivere fumetti ho scoperto che mi piace moltissimo. Ho scritto diverse cose, in questi anni, ma i fumetti sono quelli che mi entusiasmano di più. Comunque, sto già lavorando a una cosa, forse due. E ho almeno tre o quattro idee concrete. Più o meno dello stesso genere. Ma non solo.
Fonte immagini: Fumettologica