Intervista a Frederick Wiseman: "Dopo National Gallery vorrei filmare Vaticano e Casa Bianca ma non ce la farò"
Arriva in sala National Gallery, documentario passato a Cannes di Frederick Wiseman, il più grande documentarista del mondo
Abituato a lavorare per la televisione da qualche anno il genio di Frederick Wiseman ha cominciato ad essere cercato anche dai festival di cinema. La mostra di Venezia per prima (tra i maggiori) ha ospitato nel 2001 Domestic Violence e da lì in poi tutti hanno voluto un Wiseman in programma. Nel 2013 era di nuovo a Venezia con At Berkeley, mentre nel 2015 riceveva il Leone d'oro alla carriera, nel 2014 invece Cannes mostrava National Gallery, il film che ora esce nelle sale italiane. Un saggio di montaggio e narrazione invisibile, in cui il regista usa le parole degli altri, senza dirigerli, per mostrare la sua visione di un luogo immenso e caotico come la National Gallery.
Quel che pare uscire dal film è che è difficile capire un dipinto se non si possiedono certe nozioni…
Credo che la gente del medioevo non sapesse altro, non avevano giornali o televisione ma quel che sapevano gli veniva detto in chiesa ogni giorno, quindi anche le persone non educate capivano i simboli meglio di chi oggi è più formato ma non sa molto di religione.
Inoltre i grandi pittori del medioevo di solito lavoravano per la chiesa, facevano propaganda sia che fossero credenti sia che non lo fossero, per questo a volte è divertente vedere come riuscivano ad aggirare la censura. Ma tutto lo capisci solo con nozioni storiche e filosofiche
Mentre giravate c’erano esposizioni di Da Vinci, Tiziano e Turner, era un caso?
FW: No, lo sapevo e ho scelto quel periodo apposta (nel 2010), ho fatto in modo di arrivare in un momento in cui le potessi filmare tutte e 3. Ad ogni modo anche la collezione permanente è pazzesca, ma con le mostre temporanee si possono vedere moltissimi dipinti.
In questi ultimi anni i suoi film sono spesso sull’arte, c’è una scelta precisa?
FW: Se avessi fatto i miei primi 4 film su balletto, teatro e un museo e solo poi Titcut Follies [il suo primo epico documentario su un manicomio criminale, il film che lo impose all'attenzione di tutti ndr] mi avreste chiesto come mai sono passato dall’arte ad un soggetto sociale ma è solo caso. Voglio fare più film che posso su tante materie diverse. Volevo fare un film sulla comedie francaise almeno dagli anni ‘80 e non ci sono riuscito fino a molti anni dopo. E mentre ero lì per la comedie francaise sono andato a vedere un balletto e ho pensato che potevo fare un film sul balletto, poi sono andato al Crazy Horse e ho pensato che sarebbe stato bello fare un film su quello e poi ancora ho fatto un film su una palestra di boxe in mezzo. Non è che cambi interessi ma l’incrociarsi di possibilità e curiosità che mi porta su diversi soggetti.
Ha ancora delle mete che vorrebbe documentare?
FW: Vorrei andare in Vaticano e alla Casa Bianca a girare ma non credo me lo lascerebbero fare. Non ho chiesto però. Gli unici che mi abbiano detto di no nella mia vita sono stati quelli della polizia di Los Angeles che non volevano farmi riprendere sulle auto in servizio, così sono andato a farlo a Kansas City dove mi consentivano qualsiasi cosa.
Volevo documentare il Metropolitan Museum negli anni ‘70 ma mi chiesero dei soldi e io non potevo permettermerlo (inoltre non pago mai nessuno).
Per questo documentario si è dato delle regole?
FW: In linea di massima voglio accesso a tutto ma se c’era qualcosa di molto specifico che non volevano fosse incluso bastava dirmelo. Non credo di avere chissà quale diritto di filmare ma mi piace avere la possibilità di filmare tutto.
Avete preso in esame altri musei o doveva essere la National Gallery?
FW: Doveva essere quello fin dall’inizio perchè è un gran museo. In più non è vasto quanto il Louvre o il Prado o l’Hermitage (che hanno anche sculture e altri oggetti). La National Gallery con 2400 dipinti è considerato piccolo (nel film se ne vedono 255) e avevo la possibilità di essere costantemente informato di cosa succedesse.
Lei non usa interviste nei suoi documentari…
FW: Quasi mai, mi piace mostrare altri stili di filmmaking. In molti documentari si fanno interviste ma io non sono interessato a quello stile. Quando qualcuno parla di Turner io non lo includo per quel che dice ma per la maniera in cui lo dice, sono interessato a quel tipo di narrazione.
Non pensa che mostrare questo tipo di discussioni, quelle che ha scelto, sia in sè un’affermazione su come la politica o il pensiero politico abbiano a che fare con l’arte?
FW: Non so se sia un’affermazione o una presentazione del fatto che il problema esiste. Non c’è la soluzione nel film, non si sa come andranno a finire le discussioni ma si capisce magari che parte dello staff gradisce la pubblicità che arriverebbe grazie alla maratona e si capisce che il direttore pensa che la National Gallery andrebbe consultata prima di prendere una simile decisione. Sai che alcuni sostengono che se la maratona finirà davanti al museo l’esterno della galleria sarebbe vista da 18 milioni di persone in tv mentre il direttore si chiede se iniziano a farsi pubblicità così dove finiranno? Non è solo una questione di popolarità contro elitarismo ma più che altro come gestire l’immagine di un museo che ha una delle migliori collezioni del mondo e se sia buono o meno associarti alle scarpe da ginnastica. Io non prendo posizione, io mostro.
Di solito quando finisce il film è curioso di sapere come proseguono le storie?
FW: Alle volte. Ma finire un film ti obbliga ad iniziarne un altro perchè arriva la depressione, è come fare un figlio e subito darlo via, appena è nato. Per riprenderti devi cominciare a pianificarne un altro.