Giona A. Nazzaro alla sua terza edizione di Locarno: "I grandi festival si sono un po' locarnizzati"

Giona A. Nazzaro, alla sua terza edizione come direttore artistico, ci racconta come si fa un festival come quello di Locarno

Critico e giornalista cinematografico


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Siamo a metà del festival di Locarno ma ancora non è fissato quali ospiti ci siano e quali no. Si parla di cinema americano, ovviamente. Nonostante Locarno non sembri avere particolare bisogno del cinema americano lo stesso ci sono film indipendenti o grandi nomi invitati a partecipare in diverse maniere. Stellan Skarsagard (che non è americano ma visto che lavora molto a Hollywood è iscritto al sindacato attori che al momento è in sciopero) è venuto e Cate Blanchett no (che nemmeno è americana ma ovviamente anche lei è iscritta al sindacato). E così molti altri più o meno noti hanno scelto se venire o meno.

Ne parliamo con Giona A. Nazzaro, da tre anni direttore del Festival.

Avete ancora dei canali aperti di trattativa su degli attori? 

“Sì, ma non parliamo dei nomi più noti”.

Come mai alcuni sono venuti e altri no?

“Io credo che ci sia stata nella prima fase anche tutta una grande onda emotiva dello sciopero. E poi una forte incognita riguardo cosa questo sciopero rappresentasse. Poi le cose si sono assestate e alcune case di produzione indipendenti hanno negoziato la possibilità di poter andare avanti con le lavorazioni dei film in atto e così via. Ma su questo so quello che ho letto, quindi quello che sappiamo tutti”.

Pensi che Locarno, per il fatto di essere stato il primo grande festival a svolgersi dal momento in cui è stato annunciato anche lo sciopero degli attori, sia stato penalizzato più di altri proprio per questa ondata emotiva? Pensi che se lo sciopero fosse partito un mese prima meno attori o attrici americani avrebbero dato forfait?

“Col senno di poi non si fa granché, francamente, e poi comunque vallo a sapere...”

Quanto effettivamente vi ha danneggiato? 

“Posso dire che noi contavamo molto su una cosa in particolare, sulla presenza di Cate Blanchett per portare un'attenzione ancora più forte su alcuni argomenti che ci stanno a cuore [Cate Blanchett sarebbe dovuta essere al festival per la chiusura in qualità di produttrice di Shayda, esordio premiato al Sundance di Noora Niasari, e per moderare un panel sulle donne nel cinema iraniano ndr], però lei è stata estremamente gentile. Anzi, più che gentile, estremamente generosa, nel motivare la sua assenza e ha fatto una elogio molto bello di Locarno”.

Lo consideri un debito che lei ha nei vostri confronti che proverai a riscuotere l’anno prossimo?

“No, i programmi non si costruiscono così, a partire dalle star. Ho una grandissima stima per il coraggio artistico, l'indipendenza intellettuale e l'indipendenza politica di Cate Blanchett. Ritengo che sia una di quelle personalità che nel cinema appaiono davvero a distanza di decadi. Ma i programmi dei festival nascono organicamente e poi immagina che Locarno funziona un po’ diversamente dagli altri festival”.

In che senso?

“Beh noi come molti abbiamo un concorso di cortometraggi per esempio. Solo che da noi questo ha un pubblico di almeno 900 persone al giorno che fa solo quello, sono registi, professionisti, appassionati e cinefili che vengono solo per i corti. Abbiamo una retrospettiva sul cinema messicano che farà scuola come spesso è capitato a Locarno. C’è El Corazon Y La Espada, il primo film messicano in 3D con Cesar Romero che poi avrebbe interpretato il Joker nella serie tv anni ‘60 di Batman, La Mujer Murcielago con Maura Monti, c’è Emilio Fernandez ma anche tutta un’attività di heritage online. Con i nostri partner abbiamo restaurato La Porte Du Soleil che è un film relativamente recente, dei primi anni del 2000, ma che per una serie di fattori concomitanti ha rischiato di scomparire. Circolava solo un pessimo DVD. Ora invece il nostro restauro sarà presentato al Cairo, a Marrakech, a Montpellier… Altri Festival maggiori ce l’hanno chiesto per farne la prima mondiale”.

Cosa vorresti prendere ai maggiori festival del mondo e portarlo qui?

“Non voglio sembrare presuntuoso ma sono gli altri festival nel tempo ad essersi locarnizzati. Locarno è stato ed è prototipo di tante cose che ora si trovano altrove. Dalla diversificazione dei formati, all’attenzione alle filmografie emergenti o a quella sistematica su certe regioni del mondo, un progetto come Open Doors…. Pensa solo che già negli anni ‘90 Locarno è stato il primo festival ad aprirsi ai film in video”.

Due anni fa, al tuo primo anno da direttore di Locarno, mi avevi spiegato e raccontato la maniera in cui cerchi e riesci a battere altre strade nella selezione dei film, dove andarli a scovare, su cosa puntare… Con tutto quello che è successo nel mondo del cinema e che è cambiato in soli due anni, il sistema attraverso il quale i film vengono proposti ai festival è ancora quello?

“Molte cose sono cambiate. Un tempo certi film andavano al mercato di Cannes, oggi invece sono nella selezione ufficiale, perché sono proprio cambiate le strategie di distribuzione. Il mercato si è ristretto dopo la pandemia, i piccoli venditori sono scomparsi e i grandi gestiscono diversamente i piccoli film. La cosa che si fatica a fare capire è che un festival come Locarno, pur non avendo un mercato come Berlino o Cannes, può comunque essere utile se non molto utile alla causa del cinema indipendente. E credo che quando lavoriamo noi riusciamo a fare la differenza”.

In che maniera?

“Il modo in cui seguiamo i film e la loro vita dopo il passaggio al festival in realtà si struttura prima. Noi lavoriamo in maniera integrata con i cineasti. Non è solo che li invitiamo, vengono qui e presentano il film. Ci parliamo. Abbiamo l’accademia, abbiamo la residency… Per esempio abbiamo il film di Simone Bozzelli ma non è che l’abbiamo invitato con questo film e basta, lo conosciamo dai cortometraggi! Poi non è un caso se prendiamo un film come Vengeance Is Mine, All Others Pay Cash, vince e ora è anche uscito in Blu-ray nel Regno Unito. Pensa a Rainer Sarnet, un regista estone noto più che altro per November, con una filmografia molto interessante ma praticamente mai uscito dai paesi baltici. Ecco noi quest’anno abbiamo in concorso il suo ultimo film, The Invisible Fight, ed è qualcosa che prenderebbe in contropiede chiunque in qualsiasi festival. Ma sta qua. Un film che unisce kung fu, Black Sabbath, chiesa ortodossa e Unione Sovietica e non scherzo. Ma per prendere film così occorre avere collaboratori come quelli che ho. Non è solo questione dello sguardo e della competenza che hanno ma delle relazioni che sanno stringere che portano a scoperte nuove.

Altrimenti nemmeno li vedi, certi film”.

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