Come Un Gatto In Tangenziale, re italiano delle feste: "Volevamo portare i temi di Cuori Puri al grande pubblico"
In tre film sono diventati una certezza del cinema italiano, fanno commedie tradizionali e le scrivono (e interpretano) benissimo. Abbiamo intervistato i re del box office delle feste
Immagine di copertina: Nevio Vitali
In realtà non è una scoperta ma una conferma definitiva, la terza collaborazione (in una commedia) di Riccardo Milani e Paola Cortellesi e la seconda collaborazione dei due con Antonio Albanese dopo Mamma o Papà?. Quello di Come Un Gatto In Tangenziale è un successo costruito da una serie di commedie tarate sempre meglio, il risultato di un lungo processo di affinamento sia della scrittura di Paola Cortellesi (al suo quinto film firmato in 4 anni) che della commedia di Riccardo Milani (alla sua quarta commedia per il cinema).
PAOLA CORTELLESI: Non ti credere, quando si vive insieme è bene evitare di lavorare insieme. È una grande ragione che ci ha unito è stata il fatto che Scusate Se Esisto era la mia prima sceneggiatura...
Eh pure questo: perché ci ha messo così tanto a scrivere dei film?
PC: Perché volevo farlo quando ero pronta. Io se non sono pronta non faccio niente, non sono un uomo!
Quando non eri accreditata come sceneggiatrice l’impressione era che contribuissi lo stesso ai film in cui avevi un ruolo importante, come ad esempio Nessuno Mi Può Giudicare. Come funzionava?
PC: Sì, collaboravo. Io faccio l’autrice in radio e tv da anni, ma la tv è diversa dal cinema, allora volevo imparare. Mi è capitato di iniziare a scrivere collaborando, facevo tipo il lavoro da editor, sistemavo cose e dicevo la mia perché mi veniva chiesto, come con Massimiliano Bruno o con Miniero. Mi chiedevano di sistemare le battute e di cucirmele addosso, addirittura Massimiliano me lo chiedeva anche con le parti che non mi riguardavano. E così ad un certo punto ho voluto farlo per bene dall’inizio del progetto.
Le idee alla base delle commedie che fate insieme non sono proprio quelle del resto dei film che vediamo. C’è un po’ di “reazione” a quel che vedete intorno nella spinta creativa?
PC: No, no. Assolutamente.
RICCARDO MILANI: In realtà su quest’ultimo progetto è accaduto il contrario. Ho visto tanti film sulla periferia romana, anche molto belli, anzi bellissimi, e spesso mi trovavo a pensare che nonostante buone critiche non arrivassero al pubblico per niente. Ecco forse questo ha aiutato questo progetto, trattare quei temi in un altro modo per farli magari arrivare al pubblico stavolta!
Mi stai dicendo che in una certa maniera Come Un Gatto In Tangenziale è stato ispirato da Fiore di Claudio Giovannesi?
RM: Ma anche da Cuori Puri! Penso che sia giusto avere rispetto del pubblico e quando dico questo intendo che bisogna fare attenzione al linguaggio popolare.
PC: Non significa che chi non abbia un linguaggio popolare non abbia rispetto eh!
RM: No infatti, poi a me quei film piacciono tantissimo! Lo voglio dire. Però è un peccato che non facciano una lira. Per questo dico bisogna interrogarsi sull’andare incontro al pubblico. Questi sono autori bravissimi, esordienti e giovani eppure fanno fatica ad farsi vedere.
Voi invece siete andati benissimo, anche se c’è da dire avete potuto godere, nel primo weekend, di una mancanza di rivali in quella che è la nuova miglior data per il box office italiano: la prima settimana di Gennaio. Quella solitamente prenotata da Alessandro Siani o da Checco Zalone. L’avete scelta bene insomma…
PC: Non siamo stati noi, è stata la distribuzione.
RM: La distribuzione ci ha proprio scavalcato nello scegliere la data e quando ho visto che avevano scelto un periodo molto popolare mi sono subito chiesto se quel che avevamo fatto avesse queste possibilità. Evidentemente loro lo avevano capito e io ne sono molto contento, non si può essere sempre contenti di essere autori di nicchia.
PC: Ma c’è chi lo è ed è felice eh. Io però sono felice quando qualcuno ride di quel che ho fatto.
Come fai a saperlo? Andate nelle sale di nascosto a vedere le reazioni del pubblico?
PC: Sì, sì! Perché io Io so bene cosa mi fa ridere e quando scrivo una battuta so che andrà detta in una certa maniera per poter andare a segno. Poi certo, nei film metti anche delle battute che quando le scrivi assieme agli altri sceneggiatori ti immagini che le capiranno in due, e andando nelle sale di nascosto a saggiare la reazione del pubblico scopri che invece ridono tantissimo pure a quelle.
Come lo immaginate il vostro pubblico quando scrivete?
PC: Il giorno che dirò “Il mio pubblico” voglio essere interdetta da ogni mestiere [ride ndr]. Non lo dirò mai perché chi lo dice mi sta sul cazzo. Tu intanto fai il film perché piaccia a te, poi è la distribuzione che conoscendo il copione e avendolo visto finito valuta l’uscita e il periodo, insomma lo posiziona.
RM: Io credo che al pubblico bisogna andare incontro e non contro. Quando lavoro ad un progetto non penso a tavolino cosa faccia ridere, mi preoccupo semmai che le mie idee arrivino a quanta più gente possibile. Quando si arriverà a definire come una qualità di un film il fatto di essere popolare si farà davvero uno scatto in avanti. Soprattutto visto il mercato del cinema e il suo aspetto sociale e culturale negli ultimi tempi!
Identifichi il concetto di “essere popolare” con l’incasso?
RM: Lo identifico con il fatto che piace alla gente, se un milione di persone ci va sono contento.
Dunque intendi che un film è popolare quando incassa?
PC: Dipende più dal gradimento.
Come lo valuti quello?
PC: Non è complicato. L’incasso ti dice solo quante persone ci sono andate.
RM: E poi non è che tutto quel che incasa è bello in automatico eh!
Allora mettiamola così, i film sciatti e stupidi ma di grande incasso li consideri “popolari”?
RM: Sì sono popolari anche quelli. Io ho sempre pensato però che questo è un mestiere grazie al quale dire delle cose al pubblico, credo che questo film dica delle cose sulle spaccature del paese e ne sono contento.
PC: Volevamo raccontare i due opposti. Lo sappiamo che è un meccanismo molto vecchio, ma volevamo usarlo per una storia che in qualche modo ci tocca per via di piccoli aspetti personali sia miei che suoi. Volevamo raccontare quanto noi, che pur venendo da quartieri popolari facciamo un tipo di vita più agiata (anche se niente di assurdo), ci siamo resi conto che a volte c’è un po’ di ipocrisia nell’essere tolleranti ed essere entusiasti della “contaminazione”.
RM: Per troppo tempo, e pure ora, mi pare ci sia stato un impianto culturale che equivoca tolleranza e contaminazione, perché gli stessi che la predicano a Coccia di Morto non ci vanno né ci andrebbero mai
PC: Dall’altra parte il personaggio di Antonio Albanese è una parte importante del paese, una testa pensante che usa le proprie competenze anche se magari non ne ha di vita vissuta come gli altri, i quali invece vanno molto fieri di queste e ritengono cretino chi non abbia vissuto in strada, però poi oltre a questo non hanno niente, nemmeno la consapevolezza del loro essere cittadini. Le periferie spesso sono preda di populismo, demagogia ed estremismi e volevamo raccontare questo. Ma senza essere noiosi.
In una parola volevate fare una commedia classica...
RM: Eravamo semplicemente su un’altra strada rispetto al solito: la possibilità che ti dà la commedia di veicolare temi importanti.
PC: Che poi s’è sempre fatto. Perché molti confondono il comico con la commedia dopo i grandi come Scola o Monicelli.
RM: Che poi non erano considerati grandi alla loro epoca, erano trattati male...
PC: Sì ma c’è una tradizione italiana di commedia che ha la caratteristica di raccontare temi duri e sgradevoli (tradimenti di amici, guerra…) facendo però ridere, ed è una cosa sorprendente e italiana. Ken Loach, che io amo tantissimo, racconta drammi in maniera tragica, lui è sublime ma è un modo inglese di farlo e noi abbiamo un altro stile che va sfruttato. Non mi vorrei mai paragonare ai mostri sacri ma uno stile lo dovremo pure adottare! Poiché spesso si scambia l’umorismo con la stupidità, mi sento dire: “Vuoi fare una commedia o un film serio?” quando la commedia è serissima. I film comici invece, che sono comunque fortissimi e difficili da fare (io se vedo Tropic Thunder mi ammazzo dalle risate, muoio), hanno la missione di far ridere di pancia ma è un altro genere.
RM: “Quando lo fate un film serio? Quando lo fate un film vero?”
PC: Sì esatto, dovremmo rispondere: “No serio, lei semmai vuole chiedere quand’è che facciamo un film triste?”
Hai detto giustamente che il film si basa su un meccanismo vecchio e molto noto, quello dei due diversi che devono convivere. Uno deve adattarsi all’ambiente dell’altra e poi l’altra all’ambiente del primo. A dargli un respiro superiore alla media però sono, tra le altre cose, le comparse che avete scelto benissimo. Dove le avete trovate?
RM: Più o meno nei posti dove abbiamo girato, perché prima di iniziare le riprese abbiamo fatto un lavoro di preparazione, abbiamo realizzato dei provini in video che ci servissero da riferimento, anche per scrivere meglio. Così abbiamo trovato per dire le due gemelle.
Ecco le gemelle. Io lì volevo arrivare….
RM: Eh lo so, loro non c’erano in sceneggiatura, ci sono arrivate perché sentendole parlare in questi provini abbiamo capito che dovevano entrarci.
PC: Quando Riccardo le ha viste ci ha chiamato a tutti!
Parlano così davvero?
PC: Sì sì. Loro sono sveglissime e molto consapevoli, lo sanno bene di avere una cadenza particolare “Noi parlamo così” [comincia ad imitarle ndr] “ma non ce potemo fa gnente...”
Ad ogni modo non sono le uniche, anche in Scusate Se Esisto! ce n’erano alcune molto forti, ci tenete proprio?
RM: Spesso affido ruoli piccolo-medi a persone che questo mestiere non lo fanno, ma fin dai primi film. Perché c’è un piacere sottile a vedere persone che non conoscono il mestiere alle prese con il set e con le dinamiche di questo lavoro. Alle volte la distanza da una battuta è quel che mi convince di più e non l’affinità.
Ma far ridere al cinema non richiede un certo mestiere?
RM: Invece alle volte il divertimento viene dal fisico o da un modo di parlare, che è quel che ti spinge a coinvolgere quelle persone. Lo spettatore si diverte con te a guardarli essere quasi se stessi.
PC: Il risultato è che a Tokyo, quando presentammo Scusate, dei giornalisti giapponesi ci fecero delle domande lodando quella “grande attrice” che interpreta mia zia e noi gli dovemmo dire che è una non professionista.
Negli ultimi 15 anni si è molto tentato di raccontare il precariato o la fuga dei cervelli. Eppure non avevo mai visto un personaggio come la protagonista di Scusate Se Esisto!, dotata di quel contrasto tra l’essere provinciale (visto anche il suo marcato accento abruzzese) e al tempo stesso cosmopolita. Da dove viene?
RM: Dall’esperienza personale, abbiamo conosciuti un po’ di queste figure e noi stessi un po’ siamo così.
PC: Abbiamo pensato una storia che girasse intorno alla disparità di tutto nella vita di una donna fosse interessante. Appena ci siamo raccontati questo spunto abbiamo capito che poteva diventare divertente e sensato. In più ci siamo sorpresi di quanto chi lavora fuori dall’Italia, con successo, voglia tornare. C’è però un’altra cosa di quel personaggio, cioè il fatto che viva la mia stessa condizione (anche se non ho quelle competenze). Quando facevo l’autrice, mi sedevo ai tavoli degli autori ed ero quasi sempre l’unica donna. Quando la mia squadra tirava fuori un’idea nata da me e la proponeva, vedevo che gli altri si rivolgevano a Furio o a Sergio per discuterla o approvarla, come se fossi trasparente. Nonostante all’epoca mi fossi già guadagnata una certa credibilità nel lavoro, non venivo considerata. Ne ridevo eh, però mi dispiaceva e se non sei una donna non lo capisci fino in fondo, non senti quella sensazione di qualcuno che guarda oltre, dopo di te, come non ci fossi.
L’altra stranezza di quel film è che c’è la provincia italiana, ma non è un paradiso di vita alla maniera di metà novecento come vediamo nelle altre commedie. Per voi è un luogo di terribile arretratezza…
RM: Sì la provincia è il grosso del paese e raramente la consideriamo quando parliamo di Italia. È un aspetto non territoriale ma culturale, è fatta tanto di arretratezza quanto di emozioni autentiche, è fatta di esclusione dalla vita moderna e di fatto va ad un’altra velocità.
Come mai dopo Scusate se esisto!, che era andato abbastanza bene, avete deciso di adattare un film francese?
PC: Ce lo avevano proposto e ci è piaciuto subito. Nell’originale c’erano cose che ci facevano ridere da morire.
Quel cinismo comico, quella cattiveria così spietata di due genitori contro i figli è qualcosa che non facciamo mai. Avete dovuto stare attenti a cosa importare o con che toni metterlo in scena?
PC: Abbiamo avuto mille attenzioni, ma alla fine siamo riusciti a far passare tutte le cattiverie che c’erano.
RM: Ad ogni modo la locuzione “Non sarà troppo?!?” l’abbiamo sentita molto spesso...
PC: Eh sì ha scosso un po’ di pubblico, la gente usciva e diceva: “Eh però!”, veniva da rispondergli “Ma fa ridere dai!!”. Invece erano tutti sul “Eh però un po’ troppo cattivi...”, insomma per certi versi non siamo pronti. A noi piaceva che fosse una cosa di carogne proprio. Fare le carogne al cinema è bellissimo! Il paradosso vero però è stato che famiglie giovani hanno reagito con più scandalo, mentre mia madre e mia zia che hanno nipoti e pronipoti, hanno detto “È proprio così”.
Questo tipo di reazione a quel tipo di comicità vi ha condizionato per quel che avete fatto dopo?
PC: No no devi prima di tutto essere realistico. Non si può essere così cattivi come in quel film lì in uno che invece è più realistico, la mia donna in Un Gatto è ignorante, scontrosa e aggressiva, poteva facilmente essere antipatica al pubblico ma l’abbiamo invece calibrata perchè non lo fosse. Il motivo è che volevamo stare più vicini alla realtà delle cose stavolta, e certi atteggiamenti così strafottenti o scontrosi nascondono spesso un difendersi menando per primi. Sono contesti in cui si combatte fin da piccoli e come prima cosa si vuole far capire la capacità di sovrastare. Così capisci anche che lì possono far breccia degli estremismi che non fanno bene a nessuno, non è un credo reale però è un senso di non appartenenza a niente.