EXCL: Scappa - Get Out, Jordan Peele ci parla del fenomeno cinematografico dell'anno

Abbiamo incontrato Jordan Peele, il regista del fenomeno Scappa - Get Out

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In America è conosciuto per gli sketch della serie comedy Key & Peele. Non solo attore ma anche sceneggiatore, Jordan Peele ha debuttato alla regia con Scappa - Get Out, thriller/horror a sfondo razziale che negli Stati Uniti ha incassato 175 milioni di dollari (oltre 200 nel mondo) e che in Italia arriverà giovedì 18 maggio.

Madre bianca e padre afroamericano, Peele ha portato sul grande schermo un tema che, nell’America del politically correct, resta spinoso. La storia ruota attorno a un giovane afroamericano, Chris (Daniel Kaluuya, Skins e Sicario), che decide di trascorrere il week-end insieme alla sua ragazza bianca Rose (Allison Williams, Girls) nella tenuta di famiglia dei genitori di lei: Missy (Catherine Keener) e Dean (Bradley Whitford). Una volta arrivato, Chris realizzerà che le cose non sono come sembrano.

Noi di Badtaste.it abbiamo incontrato Jordan a Beverly Hills, con lui abbiamo parlato del film ma anche di razzismo, un tema forse non di stretta attualità in Italia come negli USA ma che può permetterci di capire meglio la società oltreoceano

Come è nata l’idea di questo film?
Otto anni fa, terminati i miei sketch a MadTv, ero a un punto della mia carriera in cui mi chiedevo che cosa avrei dovuto fare. Ho capito che volevo girare un film horror, il mio genere preferito. Ho realizzato che c’era una sorta di buco nel genere sul discorso razziale e la cosa mi ha attirato. Ho guardato The Stepford Wives (La donna perfetta) che è un po’ come Get Out ma incentrato sul gender. L’ho guardato una notte, l’avevo già visto in passato ma da quel giorno è scattato qualcosa.

Cosa dicono i bianchi del tuo film?
Alla fine pare che i bianchi fossero pronti per questo tipo di film. Non ho visto delle reazioni strane, nessuno considera il film razzista. La cosa che mi piacerebbe di più è vedere nelle sale un pubblico vasto e fatto di minoranze. Ognuno vede il film a modo suo, ma tutti alla fine si identificano e tifano per Chris, il protagonista. Che poi è il potere delle storie, anche i bianchi per un’ora e mezza si immedesimano nel personaggio afroamericano, e apprezzano questa catarsi.

Quando hai scritto il film hai tenuto in considerazione più la reazione dei bianchi o dei neri?
Di entrambe le parti. Innanzitutto sapevo che gli afroamericani aspettavano un film di questo tipo, con il ragazzo di colore che non muore nella prima scena! [ride] Ho pensato anche che non volevo nemmeno un film che risultasse odioso per i bianchi. Ancora, The Stepford Wives mi ha aiutato molto in questo senso. Guardando quel film non mi sono sentito insultato o attaccato in quanto uomo, e questo perché nei film non ti identifichi con il cattivo, ma con l’eroe, a prescindere da chi sia. Sapevo che alla fine il pubblico di bianchi non si sarebbe immedesimato con i cattivi solo perché bianchi come loro. L’emozione del personaggio è reale e ci si può riconoscere in quello che prova, anche se non ci si è mai trovati nella sua identica situazione. Ad esempio, con la prima scena voleva far capire al pubblico non afroamericano cosa significa per noi camminare nel quartiere sbagliato, perché sei visto come outsider.

Nel film i protagonisti bianchi dicono a Chris cose molto politically correct, per sottolineare la loro apertura mentale. Un comportamento che può ottenere l’effetto contrario perché sottolinea comunque la diversità. Si tratta di situazioni che ti sono capitate spesso nella vita?
Sì, sono senza dubbio situazioni molto molto familiari per tutti gli afroamericani. È una cosa che capita a chiunque rappresenti una minoranza all’interno di un gruppo sociale. La gente si relaziona con te basandosi sulla tua identità razziale e la cosa diventa col tempo un po’ fastidiosa, perché sei comunque identificato con la tua “razza” e non vieni preso in considerazione per ciò che sei realmente: una persona come le altre. Ho sempre immaginato il razzismo come una specie di alligatore, un mostro che sta sott’acqua, poco sotto la superficie. Durante la presidenza Obama c’era questa sorta di negazione, si diceva che il razzismo non c’era perché avevamo un presidente di colore. È il periodo durante il quale ho scritto questo film. Il fatto che qualcuno dica a una persona di colore: “Hey, mi piace Tiger Woods”, può sembrare simpatico, anche affettuoso, ma invece è il segno che quel mostro sotto la superficie c’è ed è presente.

Quando hai capito che il film stava avendo successo?
Credo la domenica dopo l’uscita (24 febbraio, ndr) perché superava di 10 milioni di dollari le aspettative che avevamo. Leggevo i commenti online, su Twitter. E non vedevo dei commenti negativi, le persone mi contattavano e nessuno era arrabbiato o aggressivo nei miei confronti, cosa che ad esempio mi capitava quando facevo Key&Peele.

Quindi nessuna reazione negativa? Strano, considerando come internet sia popolato da hater.
Alcune persone non si sono appassionate al film, ma in generale credo che sia piaciuto, se sei una persona intelligente ed empatica capisci quello che voglio comunicare. Le persone non si sono sentite come se volessi impartirgli la lezioncina.

La scena finale è molto significativa, è per caso un messaggio che volevi mandare alla polizia?
Il primo finale era diverso, sarà un finale alternativo presente nella versione in Blu-ray. Quando ho scritto la sceneggiatura mi pareva che andasse bene così, ma nel momento in cui avevamo la prima versione del film, c’era una sorta di consapevolezza nata dal movimento Black Lives Matter, dal caso di Micheal Brown, e la gente di colore voleva un eroe, aveva bisogno di una sorta di sollievo. Alla fine sono stato fortunato perché ho avuto la possibilità a livello finanziario di rigirare un finale alternativo. E migliore.

Come mai la scelta di usare la canzone The Time of My Life?
È la mia scena preferita e non c’era nella sceneggiatura originale. Mi è venuta in mente due giorni prima di girare. Mi piaceva l’idea di mettere una canzone che nessuno considera paurosa nel momento in cui c’è un cambiamento importante del personaggio di Rose. Ci sono una serie di altre scelte diventate iconiche, come quella della tazzina da té o la scena del latte.

Cosa pensi del dibattito che è nato intorno a Daniel Kaluuya? Samuel L. Jackson ha dichiarato che sarebbe stato più realistico utilizzare un attore afroamericano invece di un attore britannico.  
Non credo che ci sia del negativo nella questione che ne è nata, credo sia giusto che Samuel L. Jackson abbia detto quello che pensa, anche se sono certo di aver fatto la scelta migliore nello scritturare Daniel Kaluuya. Al di là delle speculazioni, lui era perfetto per interpretare Chris.

Qual è il tuo giudizio sugli attuali film horror?
Credo che rispecchino la realtà che viviamo, ad esempio il torture porn è stato il risultato dell’angoscia e della frustrazione nate dopo l’11 settembre. È stato un periodo storico che ci ha spinto a confrontarci con i nostri demoni, con quello che specialmente gli Stati Uniti hanno fatto nella guerra in Iraq.
Al giorno d’oggi c’è molto di cui avere paura, certamente questo film parla della paura del diverso, dell’essere considerato IL diverso, tema molto attuale. Ci sono moltissime allegorie in Get Out che solo dieci anni fa non avrebbero avuto senso e ora invece ce l’hanno.

Il cinema è lo specchio della società. Secondo te può anche cambiarla?
Credo di sì. Idealmente quello che faccio con i miei film è proprio rappresentare la realtà. Non volevo infatti rifare il classico film con l’afro-americano schiavo, scelta sicuramente sicura ma legata al passato. Volevo che il mio film raccontasse il modo di interagire delle persone al giorno d’oggi.

È peggio il razzista che finge tolleranza o quello che ti dice esattamente come la pensa?
Chi dice di esserlo apertamente credo sia peggio, anche se ho più paura del razzismo non espresso. Preferirei essere in un stanza con un razzista consapevole, che con qualcuno che lo è ma pensa di non esserlo.

Cosa pensi del razzismo e di chi si dichiara razzista al giorno d’oggi?
Le persone si sentono senz’altro più libere di dirlo, anche se negli States la parola “razzista” resta un tabù. Ci sono i gruppi come i KKK che lo negano, che sostengono di non essere razzisti, ma solo nazionalisti e sostenitori della razza bianca. Una volta era impensabile ammetterlo, adesso le persone sono orgogliose di dirlo. L’unica cosa buona è che se ne parli e questo è un aspetto positivo del mio film.

E degli afroamericani razzisti, delle donne antifemministe, dei gay omofobi?
È molto complicato. Ci sono così tante sfumature che credo che sia difficile, per me incluso, dare una spiegazione universale. Al di là di questo direi che c’è una sorta di sindrome di Stoccolma. Si inizia a stare dalla parte di quelle stesse persone che ti hanno tolto la tua libertà personale, forse perché così è più facile sopravvivere nel sistema.

Le minoranze hanno rappresentato la maggior parte del pubblico di questo film: 25% latini, 30% gli afroamericani. Credi che la cosa influenzerà le scelte di Hollywood nel fare film?
Non so se aumenteranno e non conosco il dato, ma il cambiamento più grande è che in passato le minoranze andavano a vedere film in cui le star erano persone bianche. Ma i bianchi americani ad esempio non sono mai corsi al cinema per vedere attori di colore sul grande schermo o storie che parlavano di afro-americani. Credo che da Straight Outta Compton e anche quello che si è fatto in precedenza con Spike Lee, Denzel Washington, Sidney Poitier, Will Smith e altri, le cose siano un po’ cambiate. Ma è da Straight Outta Compton però che Hollywood ha capito che il pubblico di bianchi vuole vedere film che parlino dei neri.

E ora?
La cosa positiva è che grazie al successo di Get Out potrò fare altri film. Ho grande speranze per la mia casa di produzione (Monkeypaw Productions, ndr) con la quale stiamo producendo alcune serie tv e qualche film. Voglio continuare con l’horror, lo sci-fi e il thriller, e continuare a usare questi generi per parlare di temi importanti. Ho diversi social-thriller che non ho terminato, ma voglio girarli tutti. Il prossimo sarà molto diverso da Get Out, non posso rivelare quale sarà il tema ma posso dire: non aspettatevi un altro Get Out!

Qualche anticipazione sul tema?
Diciamo che parlerò dei demoni sociali, dei difetti del genere umano che ognuno di noi possiede e che ci portano a odiarci l’uno con l’altro.

Lo sai che il tuo film ha creato molte battute e meme su internet sulle coppie interrazziali?
Sì lo so! Ma se lo fanno per ridere va bene. Spero che sappiano che non sono contro le coppie interrazziali. Non volevo dirlo ma… la mia fidanzata è bianca! (ride).

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