EXCL - Coco, la nostra intervista con il regista Lee Unkrich
La nostra intervista con Lee Unkrich, regista di Coco, il nuovo film Pixar ora al cinema
Come mai proprio il tema del giorno dei morti?
Quando abbiamo iniziato a lavorare su questo film, io e Darla (Darla K. Anderson, produttrice), con cui avevo già lavorato a Toy Story 3, abbiamo proposto tre idee differenti. Una era appunto quella che riguardava il giorno dei morti, idea a cui tenevo molto perché da tempo ero interessato a questa celebrazione, mi attirava l’iconografia di questa festa. C’è qualcosa di interessante e sconcertante in questi scheletri che sono coloratissimi e volevo saperne di più a riguardo. Ho fatto ricerca e più ne sapevo più capivo l’importanza di questa celebrazione che vuole ricordare i cari che non ci sono più. Ho capito il potenziale di una storia unica, mai fatta prima alla Pixar. Questi sei anni impiegati per fare il film ne sono valsi certamente la pena.Quale sono i punti fondamentali della Pixar che troviamo in Coco?
Strano ma vero quando iniziamo a lavorare su un film non sappiamo ancora quali saranno i temi che andremo a toccare, in questo caso avevamo solo l’idea generale di fare una storia che riguardasse il Dìa de Los Muertos, nulla di più di quello. Nessun personaggio, nessuna trama. In genere poi si sviluppa tutto successivamente. Nel caso di Coco il personaggio è questo ragazzino, Miguel: abbiamo cercato di capire chi fosse, cosa volesse fare nella vita… un passo dopo l’altro abbiamo scritto una storia ricca e divertente. In questo caso tutto girava intorno al giorno dei morti, al ricordare i propri cari defunti, volevo raccontare una storia che potesse svolgersi solo in quel giorno.Alla Pixar avete una sorta di lista di argomenti che volete trattare in ogni film che fate?
No, non c’è! Sappiamo ovviamente che vogliamo fare film in cui tutti si possano riconoscere e che siano interessanti, ma non c’è nessuna lista di questo tipo. Facciamo film che vorremmo guardare. Quando esco da un cinema e mi sento ispirato dal film che ho appena visto in genere si tratta di un film divertente, ma anche spaventoso e genuinamente commovente. Ci sono molti film che hanno queste caratteristiche, e quando facciamo del nostro meglio copriamo anche noi tutti questi aspetti, ma non facciamo il processo inverso, ovvero di partire volendo coprire tutti quegli aspetti. Abbiamo un’ora e mezza per portare il pubblico a vivere una avventura e voglio che provino svariate sensazioni.
Come avete gestito il fatto di non rendere gli scheletri troppo spaventosi?
Sapevamo fin dall’inizio che il film avrebbe dovuto intrattenere, divertire. Sapevamo quale fosse il tono, e non riguardava la morte in sé o il fatto di fare paura, bensì l’occasione per un bambino di incontrare persone che non avrebbe potuto incontrare in altre situazioni. Tutti noi ci siamo chiesti da dove veniamo, chi ha fatto parte in passato della nostra famiglia ma che non abbiamo mai potuto incontrare. Siamo fortunati se conosciamo le loro storie ma spesso non è cosi, spesso sono parenti di cui conserviamo solo una foto ma sappiamo poco. Questo è uno dei temi centrali.
Volevate anche rendere la morte stessa meno spaventosa?
Sì, la celebrazione dei morti riguarda proprio questo. Tutti i film che parlano dell’aldilà parlano di speranza, ti rassicurano, ti dicono di non avere paura della morte.
Coco si inserisce perfettamente nel trend attuale di Hollywood di diversificare le storie proposte.
Credo che sia un passo nella giusta direzione anche se non è il motivo per il quale abbiamo deciso di girare il film. Ma credo che sia fantastico aver avuto la possibilità di approfondire e mostrare una cultura che molte persone non conoscono, è bello parlare di storie che anche se non fanno necessariamente parte della tua cultura, di quello in cui credi tu, alla fine ti ci puoi rispecchiare. C’è stata anche l’opportunità di avere un cast interamente fatto da attori latini, cosa che non capita spesso.
Ma è stato difficile rappresentare una storia culturalmente molto specifica e renderla attraente anche per un pubblico eterogeneo?
È la prima volta che capita alla Pixar, la prima volta che facciamo un film così culturalmente specifico. Il giorno che ho presentato l’idea a John Lasseter ero molto eccitato, vedevo davvero le potenzialità della storia. Allo stesso tempo ero intimorito perché sentivo il peso di portare sugli schermi qualcosa mai fatto prima, a partire del fatto che non sono latinoamericano, e che a qualcuno avrebbe potuto dare fastidio che a dirigere un film di queso tipo non fosse un regista latinoamericano. Ma alla fine ho pensato che fosse una occasione unica, quindi la possibilità di raccontarla mi ha dato la spinta a cercare di raccontarla nel modo più fedele e giusto rispettando le tradizioni, ci siamo infatti circondati di persone culturalmente preparate che hanno fatto da consulente. Hanno seguito il film nelle varie fasi, la cosa più difficile è stata sicuramente essere culturalmente rispettosi. E ovviamente tutti i dipendenti alla Pixar di origine messicana o latinoamericana hanno voluto fortemente fare parte del progetto.
Che tipo di consulenti?
Tre in particolare. Abbiamo lavorato con Marcela Davison Aviles, direttrice de Il Camino Arts, con Octavio Solis che è un drammaturgo latinoamericano e con Lalo Alcarez, un cartonista americano-messicano. Ma anche altre persone, una musicista esperta di musica messicana, esperti del giorno dei morti, persone che gestiscono musei in vari parti del Messico, alcuni professori, o in altri casi anche… mamme. Abbiamo cercato di avere una vasta gamma di persone in modo da avere più ispirazioni cercando di farlo in maniera accurata. Volevo che il pubblico messicano e latinoamericano fosse contento del film.
[caption id="attachment_287676" align="aligncenter" width="700"] La produttrice Darla K Anderson, il regista Lee Unkrich e il co-regista Adrian Molina (Foto di Deborah Coleman / Pixar)[/caption]
Per la prima volta non ci sarà un corto Pixar ad aprire il film ma uno Disney.
Sì ed è dovuto praticamente al fatto che siamo stati così occupati sul film che alla fine non avevamo un corto pronto da usare, quindi abbiamo deciso di fare diversamente. In passato abbiamo usato corti della Pixar in apertura dei film della Disney, questa è la prima volta che faremo il contrario. Il corto di Frozen ci è piaciuto tanto, ed è legato al nostro perché anche il corto parla di tradizioni famigliari.
È importante per la Pixar che la storia sia originale?
Lo è sempre. Quando abbiamo fatto Toy Story 3 eravamo certi che la gente sarebbe andata a vederlo perché conosce i personaggi, ci sono affezionati, li amano. Ma tutti i film che facciamo, quindi anche i sequel, sono comunque per noi originali perché devono essere ogni volta diversi.
Quando è uscito The Book of Life di Jorge Gutierrez, regista messicano, cosa avete pensato? Ci sono alcuni punti in comune.
Non ne sapevamo nulla quando abbiamo deciso di fare Coco. Ad essere onesto quando l’ho scoperto sono rimasto deluso perché credevo che il tema scelto fosse originale e unico, quindi mi sono preoccupato un po’, soprattutto temevo che raccontasse una storia simile alla nostra. Quando l’ho visto è stato un sollievo perché sì, ci sono elementi del Dìa del Los Muertos ma sono due storie completamente diverse. Abbiamo anche avuto modo di conoscere Jorge Gutierrez. I nostri due sono in pratica i primi film sul giorno dei morti, è un po’ come il film di Natale, ognuno la racconta a modo suo.
Come vi siete preparati sul tema dell’aldilà?
Abbiamo guardato un sacco di film sull’argomento, addirittura credo tutti quelli che ci sono, alcuni ci sono piaciuti, altri no. Partendo da lì volevo fare qualcosa di diverso, ma ovviamente come ispirazioni ne abbiamo avute parecchie. Sicuramente il modo di usare i colori di Gaspar Noé mi ha influenzato.
Quanto vi ha influenzato invece il viaggio in Messico?
La storia di Coco è ispirata alle persone, alla cultura e alle tradizioni del Messico. Appena abbiamo deciso di voler raccontare una storia che si svolge in Messico, abbiamo prenotato immediatamente un viaggio per andare là e fare ricerca. Nel corso di tre anni abbiamo visitato musei, mercati, piazze, laboratori, chiese, haciendas e cimiteri a Città del Messico, Oaxaca e Guanajuato. Abbiamo visto una rappresentazione teatrale a Xochimilco. Abbiamo trascorso un po 'di tempo con tantissime famiglie in Tlacolula, Tialixtac, El Tule, San Marcos Tlapazola e Abasolo. Ci hanno accolti nelle loro case e ci hanno parlato del loro cibo, della musica che ascoltano, del modo in cui vivono e delle loro tradizioni. Soprattutto, abbiamo letteralmente capito l’importanza che attribuiscono alla famiglia.
Come si sono tramutate queste ispirazioni a livello di animazione?
Quando crei un mondo devi rispettare dei parametri. Nel caso della Terra dei Morti ho pensato che dovessero essere rappresentate diverse ere, molte iconografie che hanno ispirato il film vengono dell’artista Juan Guadalupe Posada, le cui incisioni risalgono all’era vittoriana, e le abbiamo usate come punto di partenza per sviluppare la Terra dei Morti dove si riconosce infatti molta architettura e tecnologia vittoriana. In Messico poi ci sono diversi palazzi, cambiano da città a città. Ad esempio un giorno ci trovavamo in questo bellissimo ufficio postale a Città del Messico, che ha ispirato, insieme a Penn Station di New York, la centrale in cui Miguel incontra i suoi parenti.
Mi hanno colpito molto le immagine di Miguel che suona la chitarra, le sue dita che si muovono.
In tanti film in cui la gente suona la chitarra in realtà la stanno solo strimpellando e non volevo fare la stessa cosa, volevo che fosse autentico e l’ho sottolineato fin da subito. Non volevo usare motion capture. Quindi ogni volta che scrivevamo un pezzo di musica e lo facevamo suonare, posizionavamo delle go-pro in tutti gli angoli della chitarra e filmavano ogni angolo in modo che gli animatori avessero materiale a disposizione. Abbiamo sviluppato molta tecnologia per far vibrare le corde della chitarra nella maniera giusta. Siamo stati fortunati perché tanti nostri animatori sono musicisti e hanno fatto molto lavoro pionieristico in questo senso. So che i musicisti in sala apprezzeranno il fatto di vedere che Miguel sta suonando davvero.
Come mai la famiglia produce proprio scarpe?
Volevamo che fosse un business diverso dal suo voler fare qualcosa di creativo, un lavoro pratico e decisamente non affascinante. Abbiamo pensato a quale potesse essere il business di una famiglia in una piccola cittadina, avevamo diversi idee ma alla fine c’era qualcosa sulle scarpe che ci ha convinto, il fatto che sia così pratico, un lavoro che non ha niente di eccitante se poi sei un musicista.
Questo film che parla del Messico farà cambiare qualcosa nel rapporto tra i due paesi nell’era di Trump?
È interessante che il film esca ora, non era pianificato perché ci lavoriamo da sei anni e sei anni fa il mondo era un posto totalmente diverso. Abbiamo cercato in tutti i modi di fare un film che celebrasse un’altra cultura, e che lo facesse con amore. Ci devono essere storie così in questa fase storica, in modo che ci possa essere la possibilità di empatizzare con le altre culture. Credo che raccontare storie sia l’unico mezzo che ci è rimasto per cambiare le cose.
Le foto dell'articolo sono di Deborah Coleman / Pixar
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Ambientato in Messico, Coco racconta la storia di Miguel, un aspirante cantante e chitarrista autodidatta che sogna di seguire le orme del suo idolo Ernesto de la Cruz, il musicista più famoso nella storia del Paese. Ma ormai da generazioni la musica è severamente proibita nella famiglia del ragazzo.
Diretto da Lee Unkich, co-diretto da Adrian Molina e prodotto da Darla K. Anderson (Toy Story 3 – La Grande Fuga), Coco è uscito nelle sale italiane insieme al nuovo contenuto speciale firmato Walt Disney Animation Studios Frozen – Le Avventure di Olaf.