Essere Gabriele Muccino. Oggi. In Italia – Parte 2: Il successo italiano e mondiale

Critico e giornalista cinematografico


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Essere Gabriele Muccino. Oggi. In Italia. Parte 1: I fondamentali

Essere Gabriele Muccino. Oggi. In Italia. Parte 1: I fondamentali
Parte 2
Il successo italiano e mondiale


©Andrea Francesco Berni
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Leggi la Parte 1: i fondamentali

  • Nel 2000 Gabriele Muccino è a quel punto della sua carriera in cui ha già lavorato con buona parte degli attori e della troupe che si porterà sempre dietro (addirittura Buonvino era già alle musiche di Ecco fatto) e la Fandango è arrivata al massimo della potenza. Quando arriva L’ultimo bacio, sembra proprio il momento di svolta di una nuova generazione per il cinema italiano.


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intervista a cura di
Gabriele Niola

Cosa significa fare un film così, di quella portata, con quel successo in quel momento della tua vita? Un film che finisce a vincere il premio del pubblico al Sundance!

“Il successo di L’ultimo bacio fu prepotente ma va considerato che io venivo dalla Mikado, che aveva distribuito anche Come te nessuno mai e con quel film passavo alla Medusa, che in tutto e per tutto mi fece sentire in una major. Improvvisamente il film aveva una promozione molto più importante di quelle che avevo avuto, uscivo in 90 copie e partimmo subito col botto, proprio dal primo spettacolo delle tre e mezza. Mi sono spesso chiesto come fu possibile una partenza simile”

E che ti sei risposto?

“In quegli anni esistevano tre tipologie di film che andavano bene: quelli di Pieraccioni, di Aldo, Giovanni e Giacomo e di Vincenzo Salemme. Non c’erano altri che avevano incassato davvero bene prima di L’ultimo bacio, bisognava tornare indietro ai film di Troisi. C’era insomma un buco di cinema pop di quella portata. Aggiungi che ci fu il successo in VHS di Come te nessuno mai, i pischelli se lo passavano anche nelle aule magne e lo guardavano con i genitori, che così vedevano i figli in azione fuori dai loro occhi. Credo che sia stato nei salottini delle case che è costruito il mio pubblico, altrimenti non si spiega perché L’ultimo bacio sia partito così forte. Certo poi Medusa ebbe l’ottima idea di mettere un teaser del film prima di quello di Aldo, Giovanni e Giacomo, il piano sequenza del matrimonio. La gente si vide questi 2 minuti e mezzo e poi BOM, fine: L'ultimo bacio. Un mese dopo uscì il trailer e poi il film. Il primo weekend fece un miliardo di lire e la settimana dopo iniziò a crescere così tanto la richiesta che non si entrava nelle sale. Medusa le aumentò da 90 a 150, quasi triplicate, e tutte piene”.


Gabriele Muccino

Gabriele Muccino
©Andrea Francesco Berni

A quel punto il tuo stile era completamente formato, più rapido, secco e ritmato di così non credo fosse possibile. L’ultimo bacio è praticamente Terminator…

“Che amo moltissimo!”

...un film d’azione in cui la storia è raccontata mentre l’azione si svolge, non nelle sue pause. A memoria mia c’è un solo momento in cui tutto si ferma, prima di ripartire con la corsa, durante la veglia funebre. Era agli antipodi di tutto quello che il cinema italiano faceva ma molto vicino ai film americani che il pubblico italiano comunque guardava e conosceva. Tutto quel comparto di camerawork, piani sequenza e soluzioni complesse, sono state per te una conquista ma avevi troupe che erano in grado di farle?

“Guarda mi capitava spesso sul set di raccontare una scena a Catinari, il direttore della fotografia, facendogli vedere che prima la macchina parte da qua, poi giriamo intorno, andiamo lì, torniamo indietro, lei sta sul letto, poi si alza e ci porta da lui con un piano a due, poi lui esce dalla porta e rimaniamo con lui. Alla fine mi voltavo e trovavo la troupe basita che mi diceva che era impossibile. Gli dovevo giurare che si poteva fare e davanti ad uno che ti dice “Se po fa!” si sono fidati e l'hanno fatto. Per questo quella con Catinari è diventata una collaborazione importante per me, anche dal punto di vista delle luci. Il film era ovviamente girato in pellicola e avevo bisogno di tantissima luce”.


©Fandango ©Medusa - Tutti i diritti riservati

Mi stai dicendo sostanzialmente che, con tutto il garbo e la gentilezza del caso, dovevi insegnargli come fare una parte del loro mestiere?

“Diciamo che dovevo spingerli a fare un salto che io avevo imparato a fare con la scuola di Ultimo minuto. Lì avevo imparato la leadership, non ho secondi pensieri sul set, se dico che si può fare si fa. Anche perché anche io obbedisco ai miei stessi ordini che trovo scritti. Sai all’epoca io avevo sulle spalle più lavoro di tutti, solo per Ultimo minuto feci 50 corti, un'infinità di conoscenza ed errori che non farai più”.

Dopo quel successo facesti un film ancora più ambizioso, Ricordati di me, in cui per la prima volta introducevi in modo esplicito un punto di vista politico. Il film andò molto bene eppure spesso ne parli come del momento in cui si è rotto qualcosa, quando si è incrinato il tuo idillio con l’industria del cinema italiano.

“Non so cosa sia successo lì e credo che non lo saprò mai”.

In termini di tono tra i due film c’è un abisso

Ricordati di me è un film scritto dopo l’11 settembre, L’ultimo bacio prima, entrambi corrispondono ad un momento storico. Prima ci sono i ragazzi edonisti e superficiali con davanti a sé un orizzonte infinito, poi la famiglia di Ricordati di me, chiusa nella paura di non apparire come vorrebbe. C’è dentro secondo me quel senso di paura che abbiamo avuto a seguito dell’11 settembre, quando l’orizzonte ci si è stretto e avevamo paura di stare accanto a qualcuno perché poteva essere un kamikaze, qualcosa che prima non contemplavamo. Sembra non avere niente a che fare con il film ma io so che invece ce l’ha. Ricordati di me fa un passo verso il dramma, perde la leggerezza e la commedia vitellonesca, anche perché io mi ero spaventato e avevo preso atto di quanto è cupo il mondo”.

Soprattutto è un film sul corpo delle donne e i media, un tema che all’epoca non era discusso come oggi.

“Nasceva tutto da una frase della velina Alessia Fabiani che avevo letto: “Le brave ragazze vanno in paradiso, quelle cattive vanno dappertutto”. È proprio il tipo di frase che accende la voglia di fare un film sul desiderio di apparire che prevarica quello di essere, che poi oggi è l’unico modello esistenziale che conosciamo ma allora non lo potevamo immaginare. Come non parlavamo dello sfruttamento femminile nella televisione o dei bunga bunga, eppure in quel film pur non sapendolo lo raccontavo. Penso che sia uno dei più sottovalutati tra i miei, addirittura c’era Bentivoglio che si candidava senza sapere fare nulla, in nuce c’erano i 5 stelle. Fu come catturare qualcosa che era già lì ma non era stato ancora etichettato.
Inizia lì anche un po’ di disincanto verso la famiglia, più che in L’ultimo bacio perché lì ancora si pentono, pensano ancora che ci sia tempo per rimediare agli errori. In Ricordati di me invece sono tutti prigionieri del tempo: la Morante sa che se non fa oggi l’attrice non lo farà più; Bentivoglio sa che se non riama la Bellucci come una volta non la amerà più e la richiama; la Romanoff anche sa che se non usa il suo corpo non ce la farà ad entrare in quell’arena. Sono tutti un po’ dei disperati”.


©Fandango ©Medusa - Tutti i diritti riservati

Quello però è anche il momento del salto americano

“In realtà quello era avvenuto dopo L’ultimo bacio. Avevo preso un agente americano e iniziato a fare preproduzione su diversi film per Harvey Weinstein, che era quello che era ma aveva una grandissima conoscenza cinefila. Solo che questi film non partivano, e così feci Ricordati di me. Però per uno di questi film mai fatti lavorai con Eva Mendes, e lei quindi si vide L’ultimo bacio (forte del premio al Sundance). Impazzì. Così tanto che lo fece vedere a Will Smith quando lavorarono insieme sul set di Hitch, e nel promuovere il film in un’intervista con Giovanna Grassi sul Corriere della sera Will non fece che parlare del mio film invece che del suo”.

Cioè lo avevi letto sul giornale e non te lo avevano detto?

“Dovetti mandare io il ritaglio ai miei agenti americani che non ci credevano, pensavano che io mi fossi sbagliato e Will Smith stesse parlando di Last Kiss, un altro film uscito in quel momento. Per fortuna in quell’agenzia, la CAA, c’era uno che parlava italiano e glielo tradusse. Così si convinsero e ci misero in contatto, anche perché erano sempre loro che rappresentavano Will. Nel giro di poche ore quindi lui sa che sto nella sua stessa agenzia e mi vuole parlare al telefono, anzi mi manda proprio un copione, quello di La ricerca della felicità. Lo leggo a fatica, anche se il mio agente era entusiasta, c’era tutta una parte finanziaria che era difficile, cioè è difficile già in italiano figuriamoci per il mio inglese dell’epoca. Invece la parte padre-figlio era minima. Dopo averlo letto 3 volte capisco cosa sarebbe potuto diventare, perché avevo in mente Ladri di bicilette, con gli scanner al posto della bici e un uomo che con sé ha un’ambizione e un bambino. Pensando a quello immagino il film che volevo fare io, che non era proprio quello scritto, quello scritto era un film all’americana, molto freddo come spesso sono i loro copioni”.

Hai spiegato tutto questo a Will Smith al telefono??

“No figurati! Lui voleva parlare al telefono, io no. Sapevo che il mio inglese non era all’altezza, poi al telefono non si capisce niente. Ed ero reduce da una figura terribile con Al Pacino”.

Che figura scusa? E quando avevi avuto l'occasione di fare figure di merda con Al Pacino??

“Era sempre per uno di quei film che dovevo fare con Weinstein, Pacino era il protagonista ma non gli piacevo, non si fidava di me, della mia sincerità e del mio inglese. Allora mi chiese: “Lo sai cosa significa la parola nuances?” e io risposi “Sì!” e lui: “Cosa significa?” a quel punto dovetti ammettere: “Non lo so”. Fu esattamente come prendere una Beretta e spararsi in bocca. PAM! E il cervello spiaccicato sulle maioliche bianche dietro. Quel film non si fece per quel motivo”.


Gabriele Muccino

Gabriele Muccino
©Andrea Francesco Berni

Tornando a Will Smith, che altre alternative avevi rispetto a parlarci al telefono?

“Mi informo su dove sta e mi dicono che in due settimane sarebbe arrivato a Parigi per promuovere Hitch, così decido di andare lì. Lo incontro in hotel, in una pausa delle interviste e in 20 minuti lo strego, non so perché stava lì come se avesse visto la luce dei Blues Brothers, inizia a dire ridendo: “You! YOU!!” puntandomi il dito contro”.

Ma che gli avevi detto?

“Una frase da coatto: “Nessuno può raccontare il sogno americano essendo americano, perché ci state dentro, non lo potete vedere come lo vede uno da fuori”. Ma era una frase detta per intortarlo, come un napoletano a Forcella. Lui mi fa: “Ci vediamo a Hollywood” ma io reduce da Weinstein e Pacino penso “Se vabbè”, invece dopo due settimane mi chiamano alla Sony, che poi è la Columbia: un’istituzione. Considera che quando entri alla Columbia ci sono bacheche e bacheche piene di Oscar con dietro il poster del film che l’ha vinto. Saranno una 50ina, la storia del cinema. E nell’ufficio della CEO, che all’epoca era Amy Pascal, c’era una vetrina con qualche altro Oscar e sotto tutti David di Donatello, una cosa curiosissima, erano tipo 30 David vinti come miglior film straniero”.


Gabriele Muccino

Gabriele Muccino
©Andrea Francesco Berni

Pensa che io ho sempre creduto che li buttassero… Ma da Amy Pascal che ti dovevano dire?

“Era un colloquio di lavoro. E io non capivo niente, perché lei ha anche un difetto di pronuncia, ha la s con la lisca. Il punto era come io volessi fare il film, come lo vedessi. E mi dice [imita la lisca di Amy Pascal ndr]: “Non hai mai fatto un film in inglese, non hai mai vissuto in America, noi che siamo la Columbia perché dovremmo prendere te per un film da 60 milioni di dollari?” e io gli dò una risposta ancora più spavalda: “Perché se prendi me vinci due volte”. Che cazzo vor dì? Non lo so. Ma loro risero tutti. Non voleva dire ufficialmente un cazzo, ma così è andata”.

Hai avuto difficoltà a prendere tutto un metodo di lavoro affinato in Italia e tradurlo per i tempi, il set e le regole di Hollywood?

“No perché Will Smith ha trasformato la Columbia nella Fandango, ha fatto in modo che nessuno potesse rompermi, che nessuno potesse dirmi nulla sul copione e nessuno potesse venire sul set”.

È vero che fu tua l’idea di avere il figlio di Smith, Jaden, nel film?

“Sì, ne vedevo parecchi ma non trovavo il mio Enzo Stajola, poi dentro all’ufficio di Will vidi lui. Credo che il fatto di farlo entrare un attimo a salutarlo sia stato uno stratagemma di Will per farmelo conoscere. Parlarono 3 minuti e poi uscì ma sto ragazzino aveva una luce pazzesca. Tanta roba. Oggi è un’altra cosa, è un po’ confuso, ma allora era pazzesco. Non sapevo nemmeno se volessero fargli fare l’attore, chiedo un provino ed è spaziale, ne fa uno con il padre (perché pure lì dovevamo vedere se non si bloccava con il padre) ed è fantastico. La Columbia però non lo vuole. Proprio Amy Pascal mi chiama, vuole far vincere l’Oscar a Will Smith e se prendiamo Jaden sembrerà nepotismo. Ci vorrà un provino con tutta la troupe al completo, così che tutti vedano che è bravo e che si sappia che è stato tutto regolare, per prenderlo. Hanno mobilitato 50 persone per un provino, la scena sulla panchina, praticamente era una troupe come quella che avevo su L’ultimo bacio”.


©Columbia Pictures - Tutti i diritti riservati

Ma in tutto questo ti hanno lasciato modificare il copione tranquillamente?

“Ma figurati! Quando il produttore esecutivo lesse i cambiamenti mi fece chiamare perché “preoccupato”, che è il termine che viene usato quando ti vogliono far sapere che sei davvero nella merda. Quando arrivo è tutto rosso e mi dice: “So many changes! So many changes!! What have you done? What have you done?!?” era impazzito. Gli spiego che li avevo fatti con Will, ma non sente ragioni. Quando riferisco a Will di questo incontro lui si alza in piedi e si batte con la mano sul petto in fuori come a dire “Lasciala a me questa cosa, ci penso io” e parte a falcate gigantesche, passi da due metri, lui poi è un cristone e io lo seguivo dietro come un minion. Appena entra nell'ufficio il produttore esecutivo si sgonfia. Prendono i cambiamenti e li affrontano uno ad uno, Will dà una spiegazione per ogni punto cambiato. Tutto molto veloce e finisce con il produttore che dice: “Beh va benissimo allora. Grazie!”. E così ho scritto il mio film anche se non l’ho potuto firmare”.

Perché?

“Perché se non sei iscritto alla WGA non puoi firmarlo senza il consenso di chi l’ha scritto per primo, oppure ti serve una verifica di un tribunale che stabilisce che l’hai cambiato a sufficienza per firmarlo, forse l’avrei dovuta chiedere eh ma mi bastava fare il film”.

Alla fine hai avuto ragione tu a prendere Jaden, ma forse aveva ragione Amy Pascal sull’Oscar. Cioè quel film ha mostrato agli americani che Will Smith sa recitare, lì è nata la sua carriera da attore, eppure non ha vinto l'Oscar in un anno in cui l'ha vinto un altro afroamericano, Forest Whitaker...

“Sai per quanti voti non l’ha vinto? 15. Il motivo per cui non vinse però fu che il film era un blockbuster mentre L’ultimo re di Scozia non lo vide nessuno. Il successo al botteghino non ti aiuta mai. La verità è che alla fine il mio era percepito come un feel good movie”.


Parte 1
I fondamentaliLeggi ora

Parte 3
Il ritornoLeggi ora

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