Luc Besson su Dogman: "Caleb Landry Jones sta nella stessa categoria di attori di Gary Oldman"
Luc Besson presenta DogMan a Roma e racconta di quanto lo abbia impressionato Caleb Landry Jones, dei cani e di Venezia
Era dal set di Leon che Luc Besson non ritrovava quel tipo di shock che gli aveva dato Gary Oldman, e Caleb Landry Jones in Dogman l'ha fatto
Il film è incentrato sulle vicende di un bambino maltrattato che è costretto a stare nella gabbia dei cani da genitori possessivi, violenti ed egoisti. Nel corso della sua vita sarà quindi molto più amico dei cani che delle persone, e di tutto quel che gli accadrà i cani saranno gli artefici, fino all’arrivo su un palco e forse a una possibile purificazione. Questo significa che Dogman è un film pieno di cani, e sul set non è mai facile gestire animali.
“Con i cani non sai mai cosa accade ogni mattino, devi sempre avere a che fare con loro sul momento e organizzare le situazioni a seconda della loro inclinazione”
“Era inutile scrivere troppo quello che ogni cane doveva fare, tanto non è che puoi chiederglielo. Quindi ogni mattino sul set io Caleb [Landry Jones, il protagonista ndr] andavamo a passare un’ora con gli 80 cani del branco che avevamo con noi. Io osservavo le loro personalità, alcuni erano più affezionati di altri e venivano da me o da Caleb per esempio, altri no. Così ho cercato di capirli e sceglierli o anche solo fare stare insieme quelli che potevano stare insieme. È un po’ come se tu invitassi 80 persone a cena: come le fai sedere a tavola? Chi va vicino a chi? Io organizzavo tutto a seconda della personalità di ogni cane. Li ho usati come personaggi”.
Ce n’erano di più difficili da gestire?
“Sì, per esempio il grande cane irlandese, quello proprio gigantesco. È un cane di mia madre. È una razza dolce ma gli altri cani non possono girare con loro perché ne sono spaventati, appena arriva uno di quelli scappano. Allora con un po’ di telefonate abbiamo trovato i fratelli e le sorelle del cane di mia madre, cioè altri cani che lo conoscessero. Alla fine avevamo 8 o 9 di questi cagnoni sul set e tutti erano terrorizzati, perché sono giganteschi, cioè se gli dai un pollo intero lo spaccano e lo mangiano in 10 secondi, hanno una pressione mandibolare di 1,2 di tonnellate per centimetro quadrato, possono anche frantumarti le gambe. Ma in realtà sono i più dolci in assoluto, ho dovuto lavorare per farli sembrare spaventosi, ad esempio abbassando i frame per secondo della videocamera quando compaiono, così da dargli un po’ più di peso nei movimenti, altrimenti davvero sembrano troppo dolci!”
Non ci sono stati premi per Caleb Landry Jones a Venezia, pensava lo meritasse?
“Non ho visto il film che ha vinto il premio per il miglior attore quindi non so dirti, magari è molto buono. Posso dire però che lavorare con Caleb è stato paradisiaco. Questo ragazzo è così umile... La sola cosa che ha nella vita è la musica e la parte che deve recitare. Abbiamo lavorato insieme per 6 mesi, già prima delle riprese, come buoni amici. Ogni giorno prendeva le informazioni che gli davo, tutte, e io mi chiedevo se poi se le sarebbe ricordate al momento giusto, tutte le indicazioni sui toni. Ed è stato così. È come una formica che fa tutte piccole cose e quando dici azione poi esplode, come un mostro. L’ultima volta che avevo avuto uno shock simile sul set era stato con Gary Oldman quando girammo Leon, e dopo Dogman posso dire che Caleb Landry Jones appartiene a quella stessa categoria di attore”.
Che cosa si aspetta dalla ricezione di questo film?
“Sono 40 anni che non mi aspetto più niente, e lo dico con molto amore. Non è proprio il mio compito aspettarmi qualcosa. Il mio ruolo semmai è fare e proporre qualcosa, vedere se la gente lo amerà o lo odierà oppure proprio non lo vedrà. Io sono qui per fare. Penso che un artista sia una spugna e ho visto molta sofferenza nel mondo dal Covid in poi, sofferenza che ha spostato tutto: come interagiamo, come viaggiamo, come lavoriamo… Volevo solo parlare di questo dolore che è alla fine l’ultima parola che dice il personaggio. Tutti conosciamo il dolore e la domanda è ‘come reagisci a questo dolore, diventi una persona migliore o peggiore?’ Mi piaceva mostrare che proprio chi assorbe tutto il dolore del mondo alla fine è una brava persona lo stesso. E questo è il messaggio”.
Anche lei, come il personaggio, ha avuto una formazione poco convenzionale…
“I miei genitori erano diversi dagli altri. Sono stato cresciuto un po’ ovunque, sono andato a scuola per la prima volta a 9 anni e pure le prime scarpe le ho indossate a 9 anni. A 16 anni ho visto per la prima volta la tv o ascoltato musica… Avevo genitori strani, quindi ero molto legato alla natura e molto grezzo, non contaminato dalle immagini della società. Non avevo nemmeno una cultura cinematografica, quando è uscito il mio primo film, Le Dernier Combat, un critico disse che avevo preso ispirazione da 3 film che io non avevo nemmeno mai sentito. Li dovetti noleggiare per capire chi mi aveva ispirato, erano tre bei film ma continuo a non capire la relazione con il mio”.
Il protagonista canta Non, Je Ne Regrette Rien di Edith Piaf. C’è una ragione specifica per la quale ha scelto questo brano?
“Non esattamente, è il frutto di una serie di decisioni una incatenata all’altra. Nella sceneggiatura seguiamo questo ragazzo che è felice solo quando è qualcun altro. Incontra un’insegnante di teatro che gli insegna come essere qualcun altro, come essere chi vuole. Poi arriva al cabaret e a quel punto il problema da sceneggiatore è scegliere cosa fargli fare, cioè cosa vuole essere questo personaggio nel momento in cui può scegliere? Di certo dovevano essere artisti che non si muovono molto [visto il suo problema alle gambe ndr], cioè non può diventare come Madonna. Edith Piaf, essendo una cantante che non si muoveva mai, era da subito nella lista di possibilità che avevo fatto, ed era proprio perfetta perché il suo repertorio è grandissimo. Proprio scavando in quel repertorio, ho cercato i brani con maggiore eco nella storia. È andata così”.
Trovate tutte le informazioni su Dogman nella nostra scheda.