Disco Boy raccontato da Giacomo Abbruzzese, tra feste in chiesa e chi diceva che il film non si potesse fare
Per realizzare Disco Boy ci sono voluti 10 anni nei quali Giacomo Abbruzzese ha trovati i tre pilastri che l'avrebbero sostenuto
Disco Boy è al cinema da oggi, giovedì 9 marzo
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È un’opera prima questa ma ha sia un ottimo cast che poi collaboratori di gran livello…
“Il film ha un suo universo e per crearlo ho cercato i collaboratori più pertinenti. Uno è Franz Rogowski, un’altra è la direttrice della fotografia Hélène Louvart e poi il terzo è Vitalic per la musica. Questo film nasce 10 anni fa ma loro sono associati al progetto almeno da 5 anni, sono state delle scelte cardine rispetto all’estetica del film”.
Estetica precisissima anche quando il lavoro sull’immagine è meno clamoroso, penso alla parte nella giungla ad esempio.
“Sì e non è stato facile girare nella giungla, mi sono ricordato di quando James Gray chiese a Coppola dei consigli per girare nella giungla e Coppola gli disse solo: “Non farlo”. Devo dire però che tutto sommato alla fine per me è stato peggio girare a Parigi e dintorni (dove c’erano ritardi, sforavamo, era lontano dal centro e i tecnici arrivavano in ritardo…)”.
È stato nel complesso un film difficile da fare?
“È stato difficile trovare chi volesse fare un’opera prima senza cast internazionale (perché Franz 5 anni fa non era conosciuto come oggi) con 3 milioni e mezzo di budget, nessun direttore di produzione esperto lo voleva fare alle mie condizioni, dicevano che non era possibile, che servivano più giorni e più soldi per un film scritto in quella maniera. Ho preso gli unici che mi hanno detto che si poteva fare”.
Non hai mai pensato che magari avevano ragione loro? Che così non si poteva fare?
“Per me era una questione di vita o di morte fare il film. Poi per tutti i miei film mi è stato detto che erano impossibili da fare ma li ho sempre fatti. Sai la gente tende a tutelarsi e mettere le mani avanti perché se il film naufraga è un dramma per tutti. Io sapevo di potercela fare ma abbiamo giocato sul limite. Ho perso 7 Kg durante le riprese e li ho ripresi al montaggio. È stata durissima per tutti. Ogni giorno avevo l’impressione di salvare il film, poi l’ho portato a casa ed è quello che è, somiglia a quel che cercavo e sono contento”.
Ad un certo punto il film si sposta e da che è molto carnale diventa quasi fantasmatico, entra in una dimensione più astratta. Questo accade quando entra una dimensione visiva più modaiola, un’estetica tra neon e colori ricollegabile a tante cose che vediamo intorno a noi. L’avevi pensato così già dieci anni fa?
“Sì, era così già dieci anni fa. Non è modaiolo, quel tono l’ho evitato, altrimenti proprio non avrei chiesto a Hélène Louvart di occuparsi della fotografia. Con lei anche se sei in discoteca e usi quei neon non sei modaiolo lo stesso”.
Tuttavia è lei che mi ha detto che pensa di aver lavorato sull’estetica che definisce “Fashion-ish”
“Quello era il rischio. Ma guarda i colori della discoteca, sono i colori della camera termica, c’è una coerenza tematica e cromatica nel film. C’è la scena nella camera termica e poi la scena della danza che sono spirali che emanano temi, colori, suoni. Certo poi lo so che basta che uno metta un neon per far pensare a Refn o Gaspar Noè…”.
Questo è vero e lo sai anche tu
“Dipende da che cultura cinematografica hai. Io ad esempio vedendo i neon penso a Fassbinder”.
Ma quelli di Fassbinder non sono quei neon lì, sono neon di un’altra epoca, di altri colori…
“Sono più sparati forse”.
…ma non aveva proprio queste tecnologie, questa fotografia, non somiglia a quello. Se ora quei neon che usi fanno pensare a Refn è perché questi sono gli anni di Refn.
“Sia chiaro che ho una grande stima sia per Refn che per Noè, anche se non è il cinema per cui impazzisco, ma sono entrambi grandi”.
Pur non essendo il tuo cinema di riferimento quando giri scene come quelle proprio non consideri che ti stai muovendo in un tipo di immaginario visivo che loro hanno reso popolare?
“Io non ci ho proprio pensato le mie reference sono Herzog, Fassbinder, Pasolini, Antonioni, Tsai Ming-lian… Ai film di Fassbinder penso per mesi, con Refn mi diverto. Too Old To Die Young penso sia un capolavoro, la cosa più coraggiosa che abbia fatto e infatti è andata male. Però di loro non interessa quella rappresentazione della violenza, mi pare anche fuori luogo e pericolosa nel mondo in cui viviamo. Poi, lo ripeto, avercene! Sono due grandissimi registi. Solo credo che abbiamo sensibilità diverse rispetto all’umano, poi avremo gusti cinematografici che si incrociano. Sicuramente. Penso però che accostarci sia come dire che visto che nel mio film c’è una scena di addestramento militare, allora è accostabile a Full Metal Jacket, oppure visto che c’è la giungla ad Apocalypse Now!”.
Non credo sia così, ho l’impressione che questi esempi che fai siano tematici, mentre le reference visive di Refn o Noè siano più vicine.
“Sai che è? È che c’è sia l’elettronica che il neon…”.
Ma anche le forme triangolari di The Neon Demon
“Sì ma io con queste forme che cerco di fare? Prolungarle nella dimensione del sacro, infatti la discoteca è in una chiesa”.
Era una chiesa ricostruita o una vera e sconsacrata?
“No che sconsacrata! Vera e consacrata. Ci facevano le messe ma non era una chiesa cattolica. Erano cristiani protestanti di una tipologia particolare che non ho indagato. Mi interessava fosse una chiesa effettivamente usata. Ci hanno dato il permesso visto che non avremmo girato né scene di droga né di sesso, solo gente che balla”.
E quanto l’avete tenuta occupata?
“Abbiamo girato per 5 giorni e ci ho fatto una vera festa. Non avremmo mai potuto pagare così tante comparse e poi non volevo quelli che fanno finta di ballare, volevo il ballo selvaggio, quindi abbiamo organizzato una vera festa durante la quale giravamo. Una roba distruttiva. Il problema è muovere una squadra intera con la steady durante una festa, il rischio di farsi male è enorme. E poi per comunicare tra di noi con quel casino come fai? Difficilissimo. Ma ci ha permesso di avere comunque una festa vera”.
Con la musica di Vitalic anche lì mentre giravate?
“No proprio con lui che è venuto a mixare. Cioè la gente aveva Vitalic a mixare e la rissa di Franz fatta davvero, improvvisamente, senza avvisare”.
È chiaro che quelle parti in chiesa sono quelle cruciali. Cosa ci hai messo lì dentro?
“È tutto legato al fatto che oggi secondo me i club sono i luoghi del sacro. La questione tra il sé e l’assoluto è senza tempo, facciamo finta di dimenticarcela ma è sempre lì, e se non la affronti vivi male. C’è chi fa yoga o meditazione e chi va in trance nei club con un certo tipo di elettronica, non una qualunque. È una roba che ti porta al di là del tuo corpo non c’è distanza tra le persone. È una messa. Quel tipo di contatto con il sacro volevo raccontare con degli stilemi che di solito non useresti per il sacro, e quindi i neon e quella musica elettronica di Vitalic che ha qualcosa di lirico e abissale. Questa era l’idea, per questo ti dico che non vedo punti in comune con altri registi a partire dall’uso dei neon, perché l’uso è molto diverso”.
Avevate proprio già la musica del film quando avete girato la festa?
“Sì, non sempre e costantemente altrimenti impazzivano ma a volte e serviva. Come ti dicevo Vitalic è associato al progetto da 5 anni, avevo subito pensato a lui perché mi pare che la sua musica sia indispensabile per il film. Quindi gli ho mandato le immagini del film e un po’ di reference sia all’interno della sua discografia che all’interno delle discografie di altri. Lui mi ha mandato pezzi prima di girare e io li ho condivisi con tutti da Hélène agli attori. Abbiamo fatto la coreografia su quei pezzi e poi nel montaggio ha fatto altri 4-5 pezzi che abbiamo integrato nei film”.
Trovate tutte le informazioni su Disco Boy nella nostra scheda.