Cosa fa esattamente Stefano Accorsi in una serie "creata e sceneggiata da Stefano Accorsi"
Creatore e sceneggiatore di Un amore (insieme a Enrico Audenino), Stefano Accorsi è sempre più una parte creativa di quel che fa
Un amore è la seconda volta che Stefano Accorsi è creatore di un progetto a cui prendere parte e la prima in cui è sceneggiatore, ma ha una maniera sua di farlo
Già era capitato con 1992, la serie su tangentopoli, scritta da Stefano Sardo, Ludovica Rampoldi e Alessandro Fabbri, che era nata “da un’idea di Stefano Accorsi”. Lì però per l’appunto si era limitato a dare l’impulso, cioè a fornire l’idea di realizzare una serie che raccontasse quegli anni, quell’intreccio tra politica e spettacolo, la fine della prima Repubblica e la nascita della seconda.
Innanzitutto mi confermi che è il tuo secondo progetto creativo dopo 1992 e non c’è stato altro in mezzo?
“No non c’è stato altro, a parte le pubblicità che ho fatto, nelle quali ero coinvolto dal punto di vista creativo. Capisco che siano pubblicità e non film o serie ma comunque ci abbiamo lavorato per 10 anni!”.
Non l’ho letto da nessuna parte, nemmeno nei titoli di coda, quindi te lo chiedo: sei anche produttore di Un amore?
“Sai che non mi ricordo com'è la dicitura… Di certo ho il credit come creatore e sceneggiatore”.
Però lo sai cosa hai fatto…
“Si, ho seguito tutte le fasi, però poi le diciture alle volte sono strane, non so se alla fine abbiamo usato la locuzione ‘produttore esecutivo’, che è una cosa un po’ all'americana... Di certo per questa serie sono arrivato con l’idea, l'abbiamo sviluppata con Enrico Audenino, e quindi l'abbiamo creata insieme. Poi ho partecipato alla sceneggiatura, quindi in qualche modo ho seguito tutte le fasi”.
Niente di tutto questo però mi pare sia il lavoro di un produttore…
“Certo allora forse non lo sono. Sai cos’è? Che nel momento in cui lo idei, lo scrivi e ci sei sempre anche quando si va a presentare il progetto a produttori o canali, ci stai mettendo la faccia sia come attore che come parte creativa. E queste sono tutta una serie di cose che esulano dal semplice sceneggiatore”.
[alla fine l’ufficio stampa ha confermato che risulterà produttore esecutivo]
Anche stavolta, come per 1992, l’idea è stata tua?
“No, è stata di mia moglie, che mi ha detto che le sarebbe piaciuto vedermi in una cosa romantica. E da lì abbiamo cominciato a immaginare di raccontare una storia d’amore che fosse sempre fuori sincrono, vissuta attraverso fasi che non sono quelle convenzionali dei film o delle serie. Abbiamo cercato di raccontare gli altri spazi, quelli in cui ti ritrovi ma le cose non si incastrano mai bene perché per l’appunto le due persone non vivono la medesima fase della vita”.
Poi per l’appunto l’hai co-sceneggiata, ma hai effettivamente scritto? Perché so bene che chi non scrive di lavoro, e quindi non è abituato e allenato a farlo, fa una grandissima fatica a scrivere anche solo una pagina.
“Esatto, io fisicamente non scrivo, ho grande difficoltà a farlo. Mi viene più facile per esempio lavorare sui dialoghi. O anche una volta che il testo è scritto e ci sono le prime bozze mi è più facile metterci mano o ancora indicare una direzione in cui approfondire e come farlo. È un lavoro di sceneggiatura più di concetto che nel mio caso diventa poi pratico per quello che riguarda i dialoghi. E questa è una serie in cui di dialoghi ne abbiamo scritti parecchi. Però ecco ‘Scena 1, esterno giorno…” quello no, non l’ho scritto”.
Nel momento in cui avete ideato la serie cosa volevate raggiungere e cosa volevate evitare?
“La difficoltà nel raccontare una storia d'amore è cadere nella narrazione super convenzionale o stereotipata. La situazione stereotipata ti fornisce spesso una soluzione facile, ma basta spostare l'asse di un poco per capire che invece quella situazione lì può avere una valenza emotiva molto più forte e significativa. È come quando ti chiedi cosa renda tale un ubriaco, non è il fatto che barcolli, ma il fatto che cerchi di stare dritto. È un cambio di prospettiva che crea una differenza fondamentale: non ti stai rifugiando nello stereotipo”.
Questo come si riflette nel tuo lavoro sui dialoghi?
“Nel cercare di coniugare il quotidiano di due persone che comunque sono adulte e che non è che perdono la testa così dall'oggi al domani, ma si conoscono da tanto tempo, e il fatto che è come se vivessero per la prima volta veramente quella storia d'amore”.
Sul set cambiavi le battute anche degli altri?
“Si ma non sistematicamente e ti dirò, mi capita di farlo anche in film in cui recito soltanto. Capita se capisci un po’ la drammaturgia della scena di rendersi conto che magari una battuta tua o di un altro detta in un certo punto anticipa qualcosa che invece magari è meglio non sapere, ed è meglio scoprire anche solo 30 secondi dopo. Alle volte invece è perfetto non dirla proprio una certa cosa e quindi levare una battuta, perché così facciamo accadere la cosa nella testa dello spettatore, la mostriamo senza bisogno di dirla. E questa dell’eccesso di scrittura è una delle cose che trovo più spesso nei copioni italiani”.
Registi o sceneggiatori non si infastidiscono quando fai così?
“Non ti credere. Soprattutto ora non avviene, c’è stato proprio un cambio generazionale. Io ho lavorato con registi come Gabriele Muccino o Ferzan Ozpetek che sono apertissimi a suggerimenti di tutti, anche dei macchinisti. Ma noto che adesso con la generazione di Matteo Rovere e degli altri, è ancora più facile lavorare in questa maniera, anche perché ti mandano proprio i copioni alla prima stesura per ragionarci insieme. Poi dipende dalle persone. È chiaro che Sorrentino si scrive tutto lui di getto e via”.
Hai altre idee o progetti in cantiere?
“Ne ho una che è lì da diverso tempo, ma credo nella persistenza. Secondo me è un progetto bellissimo. Quando i tempi saranno maturi riusciremo a farlo”.
Cos’è? Roba di genere?
“Un po'. Un suo genere. Di certo epica, per questo è un po' difficile”.
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