Come Juho Kuosmanen ha ottenuto il look di Scompartimento n.6: grazie ad Alice Rohrwacher
La cura con cui Scompartimento n. 6 racconta una storia molto ordinaria non è normale e Juho Kuosmanen è d'accordo
Ci sono pochi dubbi sul fatto che Scompartimento n.6 sia il miglior film che possiate andare a vedere al cinema quest’anno. Lo ha diretto e co-sceneggiato (a partire dal romanzo omonimo di Rosa Liksom) Juho Kuosmanen, che pochi anni fa a Cannes si era messo in luce con Il giorno più bello nella vita di Olli Mäki, che era passato a Un Certain Regard godendo di un passaparola e di un chiacchiericcio anche superiore a molti film del concorso. Così poi con Scompartimento n.6 in concorso ci è andato (vincendo il Gran premio) e ora arriva nelle sale italiane dal 2 Dicembre.
Quella raccontata nel romanzo omonimo di Rosa Liksom è una storia estremamente ordinaria, due persone comuni che si incontrano su un treno. Cosa c’è che ha acceso in te il desiderio di filmarla?
Il film poi non ha nemmeno degli snodi drammatici forti. Come si organizza un racconto che non ha questi appigli?
“L’idea era di partire lentamente sottraendo le svolte narrative, che sono elementi di storytelling che possono distrarre. Quando c’è un intreccio o una trama molto forti segui quelli, in attesa di cosa accadrà dopo, e così non ti concentri sui piccoli dettagli che avvengono sui volti degli attori. Io invece volevo che il pubblico osservasse cosa accade intorno ai loro occhi. E per portare in superficie tutte quelle nuances occorreva mettere la sordina al resto, così che non emergesse”.
La recitazione è pazzesca. Ogni regista ha un suo modo di tirare fuori delle grandi prestazioni dagli attori. Tu come fai?
“Di certo non con tanti ciak, anche perché il film è girato in pellicola e quindi non ce lo potevamo permettere. Io ritengo che la recitazione sia basata sulla comprensione della situazione e dei personaggi. Quindi prima di girare abbiamo parlato molto dei personaggi e della sceneggiatura, abbiamo lavorato sui dialoghi così che quando abbiamo iniziato a girare il film condividevamo la medesima idea sui personaggi. Durante le riprese non ho dovuto lavorare molto con gli attori, eravamo già sulla stessa linea”.
Non fai nemmeno molte prove?
“No perché le prove in un certo senso restringono le possibilità di comportamento, fanno diventare automatici i gesti e così perdi l’autenticità delle piccole reazioni e degli impulsi. Io questo tipo di reazioni spontanee non le chiedo mai però diciamo che cerco di creare le condizioni perché si presentino”.
È stato difficile per te, che sei finlandese, trovare un attore come Yuriy Borisov? Lui è pazzesco e immagino tu non avessi grandi conoscenze dei giovani attori russi...
“Sì lui è bravissimo e adesso sta esplodendo come attore. A Cannes stava in due film in concorso [questo e Petrov’s Flu ndr], poi era in due film che sono stati presentati a Venezia [Captain Volkogonov Has Escaped e Mama, Ya Doma ndr] e uno che era a Locarno [Gerta ndr], credo sia l’attore russo più ricercato del momento.
Io lo vidi nel 2019 al festival di Karlovy Vary in un film chiamato The Bull, interpretava un personaggio interessante con diverse similitudini con quello di Scompartimento n.6 che potevo usare. Nello script in realtà il suo personaggio aveva 50 anni, lui invece all’epoca era ventisettenne. Tuttavia quando abbiamo fatto il provino assieme a Seidi [l’altra protagonista ndr] ho capito che era quello il film che volevo girare. Non per forza quello che avevamo scritto ma quello che usciva dalla loro alchimia. Nel guardarli insieme ho sentito che sembravano fratello e sorella più che una coppia, cosa molto importante perché per la storia non devono sembrare davvero minacciosi ma nemmeno troppo romantici”.
Perché girare un film in pellicola quando poi comunque per essere proiettato deve essere trasferito in un supporto digitale?
“È difficile da spiegare ma per me e il mio direttore della fotografia Jani-Petteri Passi è stata da sempre una scelta abbastanza ovvia. In questo caso volevamo un feeling un po’ di una volta, doveva sembrare più un ricordo che qualcosa che avviene ora e penso che la pellicola ci aiuti ad arrivare a questa sensazione. Alla fine il film non ha il look della pellicola ma fornisce le sensazioni della pellicola. Tutti i molti ritocchi che puoi fare ad un girato digitale suonano sempre falsi”.
Ma quindi per essere certo che poi il risultato digitale rispetti quello che avete guadagnato girando in pellicola tu supervisioni la digitalizzazione?
“Sì è importantissimo! Più tocchi il materiale più perdi i suoi pregi.
In precedenza quando vedevo un film proiettato in digitale avevo spesso l’impressione che comunque qualcosa la si perdesse, anche se poi quel film era stato originariamente girato in pellicola. E questo vale anche per il mio film precedente, Il giorno più bello nella vita di Olli Maki”.
E poi che è successo, cosa è cambiato in Scompartimento n.6 invece?
“È successo che ho visto Le meraviglie di Alice Rohrwacher, ero convinto che fosse proiettato in 35mm invece era una copia digitale allora ho scritto alla direttrice della fotografia Hélène Louvart per chiederle come avessero fatto, come fossero riusciti a catturare il feeling della pellicola anche se la proiezione era in digitale e lei mi ha spiegato cosa fare e cosa non fare nella transizione da analogico a digitale. E l’abbiamo rifatto pari pari in Scompartimento n.6”.