Come Chloé Zhao ha girato Nomadland, spiegato dal suo direttore della fotografia (e compagno)
"Non c’è buona fotografia senza buona recitazione", così Joshua James Richards racchiude l'esperienza di Nomadland
Non sono lavorazioni comuni le loro, non seguono le solite tecniche, non hanno le solite ambizioni. Le troupe sono ridotte al minimo, 3-4 persone e poi gli attori, tutto si decide al momento e assecondando più la luce che c’è che la sceneggiatura. In Nomadland poi Joshua James Richards è stato anche scenografo, cioè per ogni ambiente che incontravano cercava di creare armonia cromatica disponendo gli oggetti, ha costruito da zero il van con cui gira Frances McDormand. È un modo di giocare con luci e composizioni un po’ più avanzato, sperimentato in The Rider e qui diventato metodo. Se di metodo si può parlare, perché nulla nei loro film somiglia a come si gira in America.
Di solito sui set c’è l’operatore che ha in mano la videocamera e la manovra, mentre il direttore della fotografia e il regista sono distanti, in una tenda, davanti ad un monitor che manda le immagini che la videocamera sta riprendendo. Vedono già il risultato con una color correction di base e ad ogni ciak escono per dare direttive.
Questo è come si lavora in America in linea di massima ma non ha niente a che vedere con la maniera in cui lavorano Chloé Zhao e Joshua James Richards.
“Io tengo la videocamera, sono anche operatore e Chloé è sempre dietro di me. La nostra è una danza intima tra lei, me e gli attori. Spesso sta al mio fianco con un monitor portatile, in altri casi guarda direttamente gli attori, senza monitor. Di certo non nella tenda. Ci guardiamo anche i giornalieri, lei magari dà un’occhiata solo alle scene chiave io a tutto il resto”.
“AHAHAH No di sicuro, ma ti assicuro che nemmeno lei lo avrebbe voluto, chissà magari quel film cambierà tutto per la Marvel!”
Dalle foto del set di Nomadland sembra di capire che avete lavorato di nuovo solo con luci naturali, giusto?
“Quasi sempre sì. O luci naturali o quelle che troviamo in loco, al massimo le enfatizziamo”
Perché? Cosa pensi che porti di più al film?
“È che mi piacciono le luci naturali, hanno una bellezza che non puoi imitare, ti portano un po’ di naturalismo enfatizzato, e poi soprattutto danno una grande integrità ai personaggi, una grande profondità emotiva”.
Ho letto che nei primi film il lavoro che facevate era di impostare il setup delle luci di tutto un ambiente, non solo dell’inquadratura, in modo che gli attori potessero essere liberi di girare a piacimento. È stato così anche in Nomadland?
“Sì, nella maggior parte dei casi. I nostri film vengono da lunghi periodi di sviluppo in cui conosciamo queste persone e capiamo le loro forze e loro limitazioni. Chloé poi tira fuori da loro queste storie che sa che includerà nello script, consentendogli di raccontarle. A questo punto, quando arrivi sul set tutti sanno quale sia la propria parte e possono capirla”.
Avete potuto decidere che parti del film girare a seconda della luce che c’era in quel momento anche per questo film?
“Avevamo una shot list precisa ma poi siamo stati capaci di essere sufficientemente flessibili da adattarci a quel che trovavamo. Guarda un buon esempio è il pianosequenza di Fran [Frances McDormand ndr] nel campo. Quello del trailer. Lì era tutto disegnatissimo, tutto piazzato per dare profondità e condurre lo sguardo verso l’orizzonte. A quel punto piazzi Fran nell’inquadratura e da lì in poi non si sa più che succederà. Da lì in poi è jazz”.
Fammi capire meglio, come entra in tutto questo processo una professionista come Frances McDormand?
“Lei era totalmente nel film, ha dormito nel van, ha passato più tempo di tutti con i nomadi sul set. Non ha capito come noi la storia ma in una maniera diversa, perché voleva poter reagire in maniera genuina. Fran deve portare se stessa e stare nel personaggio anche quando accade che le vengano dette cose reali e drammatiche. A me ha aiutato molto perché io so che lei capisce benissimo le inquadrature e le lenti, so in buona sostanza che se sto con lei mi guida bene”.
Lavorando in questa maniera pensi che siate riusciti a filmare qualcosa che altrimenti sarebbe stato impossibile filmare?
“Beh come ti senti quando Swanky racconta la sua storia e tu sai che lei l’ha vissuta sul serio?
Ma anche la scena con la donna che parla di come sia essere una nomade è venuta per la maniera in cui abbiamo girato. Lei doveva essere solo una comparsa di sfondo, si chiama solo Nonna, ogni anello che porta sulle dita è un uomo della sua vita che ha amato. Ecco questo è un personaggio pazzesco e abbiamo scoperto tutto ciò perché qualcuno della crew ci aveva parlato a pranzo e ci aveva consigliato di provare a sentirla. Lei non sapeva nemmeno che Fran fosse un’attrice (due volte premio Oscar!), quella è vera connessione umana. Sai la videocamera deve creare intimità e diventare invisibile, io devo essere solo sicuro di non inquinare le performance”.
E come fai? Comunque stai lì, anche vicino a loro e ti muovi pure!
“Tipo nella scena del van alla fine è come se stessi nella casa di un persona, devi avere un livello di rispetto altissimo. E devi dimenticare il filmmaking classico, a quel punto sei come un documentarista, anche se la lingua del film è cinematografica. E io ho anche abbastanza la fierezza di partecipare alle performance. In questo film ho provato ad aiutare Fran e in ricambio lei aiutava me, come in una danza. Sai non c’è buona fotografia senza buona recitazione, alle volte la recitazione fa schifo ed è per quello che l’immagine fa schifo anche se io ho fatto tutto giusto”.