Cannes 71 - Arctic, la nostra intervista con il regista Joe Penna

La nostra intervista con Joe Penna, regista di Arctic, il film con Mads Mikkelsen presentato fuori concorso al Festival di Cannes

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Nel corso della 71^ edizione del Festival del Cinema di Cannes noi di BadTaste.it abbiamo incontrato il film-maker brasiliano Joe Penna, regista di Arctic, film presentato fuori concorso. Il lungometraggio vede come protagonista Mads Mikkelsen disperso tra i ghiacciai dell’Islanda. 

Joe Penna, 30 anni, ha iniziato la sua carriera su YouTube nel 2011 quando ha aperto il canale MysteryGuitarMan, diventato in poco tempo il più popolare del paese. Regista del videoclip di Avicii You Make Me, Arctic è il suo primo lungometraggio.  

Come è iniziato il progetto di questo film? 

È iniziato tutto con l’idea di fare una trilogia. Il primo film doveva essere su gli ultimi tre giorni di alcune persone sulla terra prima di una catastrofe. Il secondo invece doveva essere ambientato su una navicella spaziale diretta su Marte e il terzo invece sarebbe dovuto chiamarsi Su Marte e parlare di un uomo rimasto lì da solo. Il problema con il secondo era che costava troppo e nessuno voleva investire nel film di un regista esordiente. Quindi abbiamo puntato sul terzo, l’abbiamo mandato al nostro agente che ci rispose: “C’è un film in uscita che si chiama The Martian di Ridley Scott e con Matt Damon…”. A quel punto mi sono detto che avrei dovuto cambiarlo e ho scelto l’Artico che è il posto più desolato del pianeta.  

Questo cambiamento di scenario come ha cambiato la sceneggiatura del film?  

Decisamente per il meglio. Il film è diventato meno legato a certe tecnicalità come il poter respirare, il procurarsi del cibo in un pianeta ostile come Marte. Tutto è diventato più semplice: il protagonista pesca, ha freddo, ecc.  

Perché hai scelto Mads Mikkelsen?  

Perché lui era la persona perfetta, perché è un ballerino e fisicamente ha quel liricismo, il modo in cui si muove è unico. In alcuni delle riprese fatte con il drone abbiamo usato inizialmente una controfigura, e si capiva che non era lui! Anche visto così piccolo in quel tipo di ripresa si poteva riconoscere che non si trattasse di lui. Ci ho passato così tanto tempo insieme che ormai lo riconosco, conosco il suo modo di muoversi. La sua faccia poi riesce a trasmettere così tanto, con il solo movimento di un occhio, o il sorriso, qualsiasi piccolo movimento ti fa capire a cosa sta pensando. Inizialmente avevamo più dialoghi sulla sceneggiatura che poi abbiamo cancellato, non ce ne era bisogno grazie a lui, diceva di più senza parole.  

Come è stato per te lavorare con lui?  

Abbiamo trascorso insieme una settimana facendo le prove. Non essendoci più dialoghi abbiamo studiato scena per scena; ha iniziato a chiedermi il significato di alcune parole che avevo usato, voleva sapere cosa significassero per me. E mi proponeva altre cose. Abbiamo distrutto la sceneggiatura per poi tornare alla bozza iniziale. È stato un grande esercizio tornare a credere nella versione originale.  

Come avete costruito il suo personaggio?  

Ci siamo chiesti varie cose: “Ha un anello nuziale? Ha una fotografia? Un orologio con qualche cosa incisa sopra?”. Ma alla fine abbiamo capito che non dicendo niente del suo passato avremmo lasciato che sarebbe stato lo spettatore a poterselo immaginare. Quindi metà del film viene creato nella testa di chi lo guarda, ognuno può dare la sua interpretazione.  

Cosa gli ha fatto accettare di fare questo di film?  

Proprio questo. Il fatto che mentre leggeva la sceneggiatura si aspettava che ci sarebbe stata la storia d’amore con la donna, che si sarebbero racconti del loro passato, della loro famiglia. E il fatto che non succedesse dal suo punto di vista era una scelta coraggiosa e lui voleva fare qualcosa di coraggioso.  

Ha dovuto prepararsi a livello fisico?  

No, per nulla. Innanzitutto non ne avevamo il tempo, mi ha detto che avrebbe fatto il film un giovedì, e il venerdì dopo stavamo già volando per andare in Islanda. Ma anche se avessimo avuto del tempo non avrei voluto che si preparasse, il suo personaggio è un pilota che finisce in quel posto e non se lo aspetta. Anzi considerando che con il tempo il suo corpo sarebbe stato atrofizzato, abbiamo deciso di girare prima la seconda parte del film in modo che potessimo sfruttare gli effetti che quel tipo di clima ha sulla pelle che si secca moltissimo, sugli occhi. Effetti che sono molto difficili da replicare con il trucco, ci vuole moltissimo tempo. Quindi abbiamo deciso semplicemente di girare e non mettergli la crema solare in volto!  

Considerando anche il tuo cortometraggio Turning Point, cosa ti attira delle situazioni di sopravvivenza?  

Quello che mi attira è l’universalità di questo tipo di storie, tutti possono sentirsi coinvolti nel vedere qualcuno che cerca di sopravvivere, tutti possono capire quel moto. Con i miei video su YouTube ho fatto delle cose universali, tutti possono guardare quei video e divertirsi, non ti serve sapere l’inglese. E volevo fare la stessa cosa con questo film.  

Quali sono state le difficoltà nel girare un film con un attore solo, senza dialoghi e in un posto così ostile?  

La cosa più difficile era, essendo brasiliano, stare al freddo in Islanda (ride).  È stato davvero molto difficile. Il vento tirava fortissimo! Un giorno Mads ha aperto la portiera dell’auto che si è staccata ed è volata a 100 metri di distanza! Ci sono state davvero delle situazioni molto difficili, ma questo ci ha unito moltissimo, tutta la troupe si è unita moltissimo. Ho visto Mads trasportare l’attrezzatura insieme a loro, perché siamo arrivati a un punto in cui tutti tenevamo così tanto al film che è diventato un lavoro di squadra.  

Da un punto di vista tecnico, che difficoltà avete avuto?  

Moltissime. Le telecamere si fermavano ogni tanto per via della neve che si infiltrava tra le lenti e i sensori. Avevamo le ruspe per la neve che smettevano di funzionare, stesso problema con le batterie. Ad esempio i droni riuscivano a stare in volo non più di due minuti, la prima volta che l’abbiamo usato infatti si è schiantato, in un altro caso è stato spazzato via dal vento. Tanti soldi sono stati spesi nel dietro le quinte, per camion enormi, guardie di sicurezza, cose del genere. Di conseguenza quello che stava davanti alla telecamera doveva essere il più semplice possibile.  

Come avete coniugato le difficoltà tecniche con le scelte artistiche? 

La maggioranza della post produzione si è concentrata sugli effetti invisibili.  Oppure per via del vento abbiamo usato degli stabilizzatori. Per mantenere lo stile che volevamo nei primi venti minuti del film non tocchiamo assolutamente la telecamera, non c’è nessuno zoom, nulla di nulla, per dare l’idea che lì con Mads non ci sia nemmeno la persona che riprende ma che è lì totalmente da solo. Invece quando lui ha paura dell’orso polare ad esempio, abbiamo fatto delle panoramiche per dare l’idea che qualcosa lo stesse inseguendo. Alcuni effetti sono stati aggiunti dopo, come ad esempio la neve e le orme sulla neve che venivano coperte in post produzione per via del fatto che la troupe ci camminava sopra oppure Mads quando girava una scena due volte. Per quanto possibile cercavamo di usare il primo ciak, in modo da non dover risistemare tutto. 

E questo ha creato più pressione per te?  

Sì. Facevamo un sacco di prove prima, moltissime. Usavamo anche dei laser per indicare i punti dove Mads doveva stare, non potevamo fare altrimenti per non rovinare la neve fresca.  

Ti è mai passato per la testa il pensiero “Perché ho voluto fare un film in un posto simile?”? 

Tutti i giorni. Me lo chiedevo tutti i giorni. Ma il montatore lavorava in contemporanea con noi perché non potevamo smettere di girare per non far cambiare la stagione e di conseguenza lo scenario. Non potevamo permetterci di cambiare zona, andare ad esempio in Argentina dove l’ambientazione sarebbe stata troppo diversa. Quindi montavamo il film ogni giorno. Per cui mentre ero sul set e giravo mi maledicevo per aver scelto un posto così ostico, poi andavo a guardare le scene girate in zona montaggio e mi tornava in mente il motivo per cui credevo in questo film e capivo anche che stavamo lavorando bene.   

Anche Mads l’avrà pensato?  

Considerando quello che mi ha detto lui in persona sì, sentiva un trasporto per il film, la sua resistenza la trasmetteva anche al resto della troupe. All’inizio abbiamo dovuto licenziare varie persone perché non avevano iniziato con la giusta attitudine. Non avrei preferito averne di più se non si fossero sentite come in famiglia.  

Quando stavi scrivendo il film hai fatto delle ricerche su storie vere di gente che si è perduta in luoghi ostili?  

Sì moltissime. Ho incontrato gente che è sopravvissuta, un pilota rimasto bloccato in una giungla, ho consultato un esperto di medicina interna che mi ha spiegato gli effetti del freddo sul corpo, ho parlato con psicologi, e ho anche letto moltissime storie e guardato moltissimi film: Tutto è Perduto con Robert Redford, Castaway con Tom Hanks, 127 ore, Gravity, The Revenant, ma anche il film d’animazione La Tartaruga Rossa e Un condannato a Morte è Fuggito di Robert Bresson, che è un film molto asettico.  

Che progetti hai ora?  

Ho il secondo film della mia trilogia da girare. È una sorta di versione spirituale di un survival movie. Sono quattro persone su una navicella diretta su Marte, con una ambientazione da scialuppa di salvataggio. Molto hitchcockiano.  

Considerando la tua versatilità artistica, come ti vedi in futuro? Regista? 

Sette, otto anni fa dormivo sul pavimento, mi attaccavo al wi-fi del mio vicino di casa e mangiavo nelle mense per poveri. Non avevo soldi e non sapevo che cosa avrei fatto della mia vita. E tutto è cambiato di colpo e in fretta grazie a un video che ho postato su YouTube e che ha raggiunto 16 milioni di visualizzazioni. Da lì le persone hanno iniziato a considerarmi, la prima svolta a livello economica però è stata l’occasione di girare uno spot per McDonald’s. Direi mi piacerebbe diventare un sessantenne che ha girato moltissimi film. So che è difficile che accada ma ci spero.   

 

 

 

 

 

 

 

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