Canes 71 - Mamoru Hosoda su Mirai: "C'è ancora tantissimo da esplorare nell'animazione"

Il più interessante nuovo regista d'animazione giapponese, Mamoru Hosoda, parla del suo nuovo film e dello stato dell'animazione

Critico e giornalista cinematografico


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Genio gentile, la carriera di Mamoru Hosoda è partita davvero quando è finito il suo apprendistato allo Studio Ghibli nella maniera più burrascosa. Una forte divergenza creativa ha fatto sì che fosse rimosso dall’incarico di co-dirigere Il Castello Errante di Howl, lasciandolo senza lavoro ma anche pronto a diventare filmmaker in proprio.

Da lì sono nati La Ragazza Che Saltava Nel Tempo, Summer Wars e poi il capolavoro che l’ha fatto esplodere, Wolf Children. Ora, dopo The Boy And The Beast, Hosoda torna a raccontare di famiglie con Mirai, presentato alla Quinzaine Des Realisateurs di Cannes, che riassume tanto del suo cinema con un’enfasi pazzesca sul movimento del protagonista, il bambino di circa 3 anni Kun.

L’abbiamo incontrato proprio a Cannes.

Tutto il film sembra un gigantesco studio su come si possano animare i bambini, era anche questa parte dell’intenzione dietro a Mirai?

“Se pensi all’animazione nipponica del passato c’erano più che altro animali mentre oggi sono personaggi adulti. Né animali né bambini, insomma è un’animazione molto diversa da quella con cui siamo cresciuti. Io mi chiedo se sia la direzione giusta. Per animare i bambini dobbiamo osservarli, tanto, al nostro studio abbiamo deciso di intraprendere quest’impresa: guardare veri bambini. Li avevamo intorno a noi tutto il tempo, avevamo fatto in modo che ci fossero bambini ovunque mentre lavoravamo, li facevamo camminare, salire le scala e muovere intorno a noi e loro non ci ascoltavano per niente, non è stato facile. Probabilmente però il risultato di tutto questo è proprio un film così”.

Nei tuoi film invece che avere tanti personaggi spesso hai gli stessi personaggi in momenti diversi della loro vita, come se il tempo fosse la maniera in cui ampli il cast...

“Sì esatto il tempo… Sai quando hai 4 anni il tuo mondo è la tua famiglia, e tenendo ristretto il numero di personaggi penso che possiamo fare un’allegoria migliore del resto del mondo. Ma è la prima volta che ho fatto un film con così pochi personaggi, sono 7-8 al massimo e tutti ristretti in uno spazio confinato”.

C’è un bambino specifico cui ti sei ispirato per il protagonista?

“Come immaginerai ci sono i miei figli, specie il più grande che all’epoca della lavorazione aveva 3 anni. Mio figlio sentiva di aver perso dell’amore dei genitori una volta arrivato un fratello e lo faceva impazzire. Ma la cosa forte è che questo non accade solo tra fratelli, mi pare lo stesso sentimento di quando rompi con una donna, vorresti scoppiare in capricci. Credo che i bambini quando si tratta di amore vivano la sua perdita in modo particolare, ed è per tutti la prima volta nella vita che accade”.

Mirai non ha davvero una trama, non ha un intreccio ma è più una serie di scene. Come mai?

“Perché volevo dipingere la famiglia da un punto diverso rispetto all’ultimo mio film, lontano dai canonici tre atti. Mirai ne ha tipo 5. È un film sul cambiare e nella vita quotidiana il cambio avviene in maniera molto sottile. Credo che per raccontare il cambiamento di un bambino in un panorama strano una sceneggiatura tradizionale non sia la maniera, per questo ho scelto questa struttura. Ci ha aiutato ad esprimere il paesaggio interiore di un bambino in transizione”.

Vediamo una ragazza in divisa scolastica che viaggia nel tempo e ad un certo punto il bambino protagonista diventa un animale, sono strizzate d’occhio a Wolf Children e La Ragazza Che Saltava Nel Tempo o proprio immagini che ami mettere in scena?

“Quando vedi alcuni motivi ricorrere nei film di un certo cineasta, devi pensare che è qualcosa che quel filmmaker ama. Espressioni ricorrenti in una filmografia diventano ad un certo punto un punto di partenza o una forma di evoluzione. Probabilmente è dovuto a come catturiamo il modo in cui vediamo il mondo in quel momento. Come Tarkovsky catturava l’acqua in tutti i suoi film probabilmente era un riflesso di come vedeva il mondo”.

L’abitazione in cui si svolge gran parte del film è molto particolare, avete lavorato con un architetto?

“Invece di uno scenografo abbiamo chiesto ad un vero architetto di disegnare una vera casa, dopo diverse discussioni è uscita questa, una casa che è come un mondo intorno a cui il protagonista corre, per questo è piena di scale i cui scalini sono alti 100 cm, esattamente l’altezza di Kun. Per il pubblico è una casa a più strati in cui l’eye level degli adulti è diverso da quello dei bambini”.

C’è qualcosa di Yasujiro Ozu nella tua maniera di affrontare la famiglia?

“Sono davvero molto influenzato da Ozu, ma anche da Kore’eda e Yamada sono famosi per raccontare storie di famiglie. Sono tutti autori diversi tra loro, che hanno lavorato in periodi diversi e a storie diverse. Credo che oggi raccontiamo queste storie perché la famiglia giapponese sta cambiando. Dall’esterno forse sembriamo una società tradizionale e vecchio stampo ma non è così, la mia famiglia o quella dei miei amici non aderiscono a vecchie nozioni e faticano a trovarne nuove e proprie, che è quello di cui volevo parlare poi”.

C’è qualcosa in particolare che ritieni che l’animazione continui ad avere in più rispetto alle altre forme di cinema?

“Il cinema ha 100 anni di storia, le vite delle persone nel mondo sono state raccontate da fantastici filmmakers, ma se parliamo dei modi in cui l’animazione ha rappresentato la vita allora c’è ancora tanto da esplorare. Io credo che per avere successo l’animazione debba catturare un momento nella vita che non è mai stato mostrato prima. La gente mi chiede se sono interessato al live action ma quello che mi interessa davvero in realtà è usare l’animazione in modi mai visti prima, così che ci parli di chi siamo come persone”.

Tu lavori sempre a mano, hai pensato di esplorare anche la computer grafica?

“Forse anche noi lo faremo prima o poi, il punto è che amiamo l’animazione a mano ma sta per estinguersi. Anche in Giappone le uniche due produzioni animate a mano erano la nostra e quella del nuovo film di Miyazaki, tutti gli altri lavorano in CG. Ma è una bella tradizione, credo dovremmo trovare un modo di mantenerla. Stiamo provando a capire come. Ma considera che questo film ha anche molta CG eh, è un ibrido”.

Ad oggi come guardi i problemi che hai avuto ad inizio carriera con lo Studio Ghibli?

“All’epoca fu duro e in certi momenti pensavo che non avrei più fatto un film, ora però se ci ripenso lo vedo come un momento in cui io ho riesaminato la mia vita e stabilito la mia identità, chi sono e cosa voglio creare.
Avrei dovuto dirigere Il Castello Errante di Howl con Miyazaki e invece mi rimpiazzarono con lui e basta. È stato un momento probante perché sono dovuto stare senza lavoro, ma è anche un’esperienza che mi ha formato”.

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