[Berlinale 2016] Gianfranco Rosi: "I miei film non sono per gli amanti dei documentari della BBC"

Abbiamo intervistato Gianfranco Rosi, l’unico italiano della Berlinale 2016 in concorso. Con il suo ultimo film aveva vinto il Leone d’oro

Critico e giornalista cinematografico


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Fuocoammare è uno dei due documentari che presentati in concorso alla Berlinale di quest’anno (leggi la recensione), l’altro è Zero Days del più grande documentarista del mondo: Alex Gibney. Eppure Gibney e Rosi non potrebbero essere più diversi. Il primo è un maestro del racconto invisibile, del punto di vista sui fatti, dell’equilibrio e della capacità di trovare, in una storia, ciò che conta davvero. L’altro sta contribuendo a rivoltare come un guanto il suo genere, non si interessa dei fatti ma cerca un’altra verità nelle immagini.

Per quest’ultimo film Rosi si è trasferito a Lampedusa per un anno intero a conoscere, capire, selezionare e girare immagini. Quello con cui è tornato era un materiale vasto di cui ha fatto una sintesi dal montaggio e dal rigore impressionanti.

Se i film di Rosi sono clamorosi, parlandoci l’impressione è che non sia niente rispetto a quella che è la loro lavorazione. Lo abbiamo intervistato per voi.

Mi confermi che tu sei sempre l’operatore, che non hai una troupe?

GR: Sì sì sono proprio da solo, giro tutto e mi occupo del sonoro. Non c’è troupe sono proprio solo, questa volta avevo giusto un aiuto regia che viene da Lampedusa ed è stato fondamentale per entrare nell’intimità dell’isola

Nel film uno dei protagonisti che segui di più è un bambino come l’avete trovato?

GR: È stato uno dei miei primissimi incontri

Ma lo stavate cercando? Volevate un bambino?

GR: Avevo in mente di filmare dei giovani, lui è stato il primo che ho incontrato e mi sono innamorato del suo mondo fantastico. Ho cominciato a seguirlo come un gioco, non avevamo un rapporto professionale, poi tramite lui ho incontrato i suoi compagni e amici, il suo mondo.

Hai detto spesso che nelle riprese procedi adattandoti a quel che succeede, non hai mai paura di perdere il controllo di quel che hai e ritrovarti poi con materiale difficile da mettere insieme?

GR: In realtà succede l’opposto, alla fine mi ritrovo sempre con più roba di quel che osassi pensare.

Per Sacro GRA so che hai dovuto scartato molto…

GR: Sì ma anche qui ho girato un totale di 80 ore e il film dura un’ora e 50. Alla fine tagliare è parte della metodologia, anche se poi nel montaggio selezionare è meno complesso di quel che non si creda, il materiale emerge da solo.

C’erano intere storie che hai tagliato?

GR: No, solo momenti sparsi, quel che affronto è quel rimane anche alla fine, raramente abbandono qualcuno durante il percorso.

Nei tuoi film colpisce sempre come non solo la tua videocamera sembri invisibile ma tu stesso sembri invisibile per chi riprendi. I personaggi sembrano non tenere conto che in quella stanza con loro c’è un altro essere umano. Come arrivi a questo?

GR: Beh non è che inizio a filmare all’improvviso eh, c’è un rapporto che si costruisce col tempo, e la cinepresa arriva quando il rapporto si è consolidato. All’inizio chiedo alle persone che riprendo di non parlare in camera, poi col tempo diventa tutto naturale, io non dò mai indicazioni a nessuno, filmo ciò che accade.

Non ti capita mai in certi momenti di desiderare di avere un altro operatore con un’altra videocamera? Così da catturare certe scene con più dettagli, più punti di vista…

GR: No perché quello che non riprendi è fondamentale, quello che rimane fuori dall’inquadratura. Non si può filmare tutto, ci deve essere già una selezione delle cose, così che quel che fimi diventa unico.

Con questo metodo quando è che decidi che puoi fermarti, che hai abbastanza materiale?

GR: In questo caso è stato quando ho filmato la grande tragedia di uno sbarco, ho dovuto chiudere, mi sì è rotto qualcosa interiormente, ho rotto con il film e deciso che dovevo montare, non ero più in grado di andare avanti. Era stato molto difficile filmare quel che si vede.

Quanto riesci a mentenere un distacco?

GR: Poco e soprattutto è un distacco solo apparente, in realtà dentro di te cresce qualcosa che si ribella.

Eppure la forza del tuo sguardo spesso è un’incredibile distanza. L’impressione è che non usi mai le immagini con un fine ma ogni spettatore è libero di prendere la posizione che vuole di fronte ad esse.

GR: In quasi tutto il film cerco di applicare questo tipo di sguardo, anche nelle riprese più pacate, basta guardare l’ecografia del medico. C’è sempre qualcosa che accade e ti meraviglia. Per questo non potrei mai essere un regista di finzione, l’idea di scrivere qualcosa, trovare finanziamenti, mettere insieme la troupe… A quel punto il film l’avrei già superato mi annoierei.

Non c’è proprio niente di niente che in questo film hai messo in scena?

GR: Una scena sola. Che poi messa in sena per modo di dire eh... Quando i due ragazzini giocano e passa un pescatore di ricci con la barca dietro di loro. In realtà eravamo tutti e tre insieme per andare in un posto e ho chiesto a lui di passargli dietro. Ma come un fotografo può dire ad un soggetto di spostare un braccio o mettersi in una certa posizione. Niente di che.

Il documentario in questi anni è forse ciò che di più interessante si possa vedere al cinema, la realtà più dinamica e in trasformazione. Tu chi ammiri?

GR: Credo che in Italia ci siano dei bravissimi documentaristi da Minervini a Pietro Marcello, siamo davvero molto bravi.

Tu non mi pare sia troppo lontano da Minervini, specie per metodologia, come lo vedi rispetto a te?

GR: Secondo me siamo diversi, lui lavora di più sulla messa in scena e poi ha una minitroupe con sè, ha dei canovacci il giorno prima, fa il piano riprese quotidiano, ha il direttore della fotografia, un’assistente. Io invece non mi confronto con nessuno e quel che faccio diventa un diario di bordo quasi.

Sono sicuro che hai già qualcosa in mente per il prossimo film

GR: No no, ho finito l’altro ieri questo di film!

Vuoi dire che riesci a non pensare a quel che farai dopo mentre lavori?

GR: Beh di certo ho mille storie in mente che potrei raccontare ma diciamo nulla che al momento mi nasca dentro così forte da pensare di mollare tutto e partire

Tu lavori solo così? Prendendoti un anno di tempo e andando in loco?

GR: Sì devo partire e dimenticare tutto. Però considera che il 13 Gennaio ancora ero a Lampedusa a filmare, quindi veramente è troppo presto ora per pensare al prossimo lavoro.

Herzog dice che filmare la realtà è inutile, bisogna contaminarla con della finzione per giungere ad una verità più profonda. Tu ti trovi di fronte a questo dilemma ogni giorno che lavori, che posizione prendi?

GR: Mi piace la trasformazione della realtà, invece che spalancare una porta mi piace chiuderla sempre di più e finire per guardare tutto dal buco della serrature, sottrarre sempre di più elementi alle storie fino a renderle minime. Uscendo da questo film la gente dirà che non ci sono informazioni, che non sanno nulla di più di quando sono entrati, ci saranno insomma i detrattori, quelli che magari guardano i documentari della BBC e non troveranno quel tipo di racconto e di informazioni, ma a me piace sempre lasciare molto spazio all’interpretazione dello spettatore.

Non un film per fan di Discovery Channel

GR: No, ecco, non penso proprio (ride). Poi paradossalmente mi piacerebbe fare un film del genere eh, tutto scritto e preparato prima, sarebbe bellissimo, perché no. Parti per filmare gli aironi... Anche se poi sicuramente nel mio caso finirei a farla diventare un’altra storia...

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