Ben Affleck presenta Argo a Roma: la nostra intervista

In occasione del lancio italiano di Argo abbiamo incontrato uno dei registi più stupefacenti e interessanti di Hollywood: Ben Affleck...

Critico e giornalista cinematografico


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Ci ha stupito tutti con due film da regista e sceneggiatore di un rigore, una serietà e un minimalismo di messa in scena da navigato maestro, ora alla sua terza prova ha alzato l’asticella e di nuovo ha stupito tutti.

Ben Affleck è venuto a Roma a presentare Argo, film tratto da una storia vera capace come pochi altri di unire ricostruzione storica, morale di ferro di fronte al dramma storico, capacità di sdrammatizzare, un’ironia fulminante e grande tensione.

Forse è esagerato chiamarlo uno dei registi migliori tra quelli al momento in attività, di certo è uno dei più interessanti, sempre capace di spiazzare, cambiare ed evolversi di film in film.

Di persona è come sono i suoi film. Calmo e pacato, scherza occasionalmente e quando deve rispondere alle domande va dritto al punto. Se un giornalista chiede due o tre cose, una in fila all’altra, lui prende appunti per essere sicuro di non dimenticare l’ultima domanda dopo aver risposto alle prime due.

Inoltre, ennesima scoperta, è una persona con molte cose da dire non solo sulla società in cui vive ma anche sul cinema che fa.

Nei tuoi film, rispetto a quando sei diretto da altri registi, fai meno, cioè reciti in sottrazione, con pochissimi movimenti ed economia di gesti. E’ il modo in cui pensi di dare il meglio?
L’underacting è una scelta che risponde al mio gusto. Io credo sia il modo migliore di recitare, occorre fare pochissimo perchè la macchina cattura tutto di te, anche le più piccole espressioni. Quando vedo attori recitare in maniera esagerata penso sempre che mi vogliano vendere qualcosa, sono tirato fuori dal film. Nella vita vera le persone fanno espressioni minuscole, alle volte nessuna.

La storia è stranissima e viene da un articolo di Wired, tu come ci sei entrato in contatto?
La prima stesura me l'ha passata George Clooney due anni fa, voleva produrlo e farlo fare a me. Mi è piaciuto subito. Era un buon periodo per me, The town era appena uscito e stava andando bene, quindi avevo una finestra di tempo buona per far partire un altro film. A quel punto è entrato il vantaggio di essere un attore. Recitare ad Hollywood è la miglior scuola di cinema possibile perchè entri in contatto con professionalità incredibili. Così ho contattato Rodrigo Prieto, il direttore della fotografia di Inarritu, volevo il suo realismo gretto, poi la costumista che avevo visto sul set di Terrence Malick e Alexandre Desplat sempre da Malick.

La cosa più strana però è che tu non abbia firmato la sceneggiatura nonostante sia un ottimo sceneggiatore...
Sinceramente all’inizio pensavo di scriverlo da me, prendere quella prima stesura solo come riferimento. George [Clooney] mi ha convinto ad incontrare Chris Terrio e ne sono rimasto affascinato, era espertissimo, aveva fatto molta ricerca e con lui abbiamo riscritto diverse parti del film con grande affiatamento.

Cosa avete inventato e cosa avete tenuto della vera storia?
Come filmmaker sento due responsabilità: la prima è fare il miglior film possibile per il pubblico, la seconda è essere onesto nei confronti della storia. Per mantenere questo bilanciamento ho tenuto i fatti essenziali intatti al loro posto, aggiungendo più tensione nel terzo atto.
Per il resto mi sono limitato a sottrarre personaggi o scene magari importanti a modo loro ma meno focali per il film. Non è stato facile ma andava fatto.
 

La tensione a un certo punto diventa fortissima: come l’hai costruita?
La suspense in questo film viene tutta dalla recitazione, solo così puoi vivere quella situazione assieme ai personaggi. Se pensate a Il braccio violento della legge, un film con un inseguimento famosissimo pieno di suspense, e io credo che sia per via di Gene Hackman, per il modo in cui urla al volante, è per quello che sei con lui e senti la tensione del momento.
Se recitazione e ambienti sono credibili devi fare molti meno calcoli per costruire la suspense, e come regista, sebbene sia quasi controintuitivo, la cosa migliore è levarsi dai piedi evitando che il pubblico pensi "Ah è un film".

Hai fatto anche tu ricerche?
Si ma in Iran non ci sono nemmeno potuto andare a fare una visita. Ho guardato solo dei video e poi ho incorporato molti iraniani nel film, alcuni dei quali registi. È stato davvero educativo e mi ha fatto capire meglio quel posto. Purtroppo quasi nessuno che parli il farsi ha voluto partecipare al film come attore, per timore che lo stare in una produzione americana avrebbe reso la vita più difficile per sè e la propria famiglia.
Chiaramente durante la fase di scrittura ho incontrato anche il vero Tony Mendez, il mio personaggio, è stato molto gentile come del resto anche la CIA. E’ un uomo ambaile e molto tranquillo, è venuto alla premiere e mi è sembrato che il film gli sia piaciuto, oppure è molto educato!

E’ vero che hai guardato a Tutti gli uomini del presidente per gli interni della CIA?
Si, è vero. Volevo che quegli uffici somigliassero a quelli del Washington Post di quel film. Aevo imparato che quello è il modo giusto di lavorare sul set di State of play (di nuovo la grande scuola di Hollywood). Inoltre mi piaceva quell’uso di costumi e abitudini dell’epoca radicalmente lontani dai nostri, tipo le sigarette fumate di continuo.
Invece per la parte ambientata ad Hollywood volevo creare qualcosa di simile ad un film poco noto di Cassavetes , L’assassinio di un allibratore cinese, che racconta la Los Angeles degli anni ‘70 con una patina e dei contrasti che fanno sembrare l’immagine povera ma invece guardando bene ti rendi conto che ha una composizione molto raffinata. E poi La battaglia di Algeri per la parte in Iran.

Si vede anche per quell’uso di un’immagine a grana grossa
Si, c’è una tecnica particolare che abbiamo usato. Si prende la rotella all’interno della macchina da presa e se ne tagliano via i denti che si infilano nei buchi a lato della pellicola per farla scorrere. In questo modo in un medesimo fotogramma entrano due immagini. Una nella metà superiore e una in quella inferiore. Chiaramente sono più piccole del normale e quando le ingrandisci per dargli il formato corretto diventano sgranate come serviva a noi.
E’ una tecnica usata nel cinema indipendente per risparmiare pellicola.

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