Alejandro Amenabar su Regression: "La testa ci inganna sempre"

Il regista spagnolo torna al thriller mentale, alle visioni e ai giochi che la ragione provoca quando influenza la percezione. E lo fa con Emma Watson

Critico e giornalista cinematografico


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Alejandro Amenabar è tornato al thriller.

Dopo diversi anni di peregrinazione nei generi più disparati, anni che gli hanno fruttato un Oscar ma pochissimi favori del pubblico, sembra aver ridimensionato le proprie aspettative ed aver creato un film molto più piccolo del solito. Con Regression torna ai temi a lui più cari: i giochi di mente e l’illusorietà della nostra percezione perché mediata dalla fallacità della ragione. Trattata ancora peggio però è la religione, un tema che nella vita Amenabar si trova spesso ad affrontare ma che ancora non era emerso con vera forza nei suoi film.

Regression è tratto infatti da una storia vera e narra di un caso di satanismo nell’America degli anni ‘90, il protagonista è un detective incaricato del caso che, a partire dalla testimonianza di una ragazza sfruttata dalla propria famiglia per i riti, si addentra in quel mondo.

Abbiamo incontrato il regista quando è venuto a Roma, in una piccola roundtable ristretta. È stato molto concreto e aperto, mostrando di conoscere perfettamente quel che vuole dai film.

Sembra che tu sia tornato al tipo di storie a te più familiari, quelle in cui il problema è tutto nella testa dei personaggi. È una dinamica che ti affascina molto?

ALEJANDRO AMENABAR: Credo che nella testa ci sia la nostra anima e mi stupisce ancora quanto sia ingannevole e quanto possa giocare con noi per nasconderci le cose o ingarbugliarle. Il fatto che la nostra mente ci inganni ogni notte, convincendoci che siamo in un'altra realtà è incredibile! Su questo feci il mio secondo film, Apri gli occhi. Sono convinto che ad un certo punto esploreremo altre realtà solo con la nostra mente, perché alla fine tutto sta qui, nella testa.

Il film è ambientato negli anni ‘90 ma sembra anche un film fatto negli anni ‘90, quel genere di thriller che lei ha contribuito a formare, in cui si gioca con la percezione dei protagonisti e il loro stato mentale...

AA: Ovviamente questo film si guarda indietro, guarda però più al cinema degli anni '70 e non a quello dei '90. Parlando dell'horror quel che io cercavo di evitare era il digitale, perché ne vediamo troppo e noi come registi spesso siamo portati ad appoggiarci eccessivamente ad esso, non solo visivamente ma anche sonoramente. Ben presto ho capito che un film come Regression invece avrebbe rigettato quest’approccio. È un po’ un film analogico, pensa che anche nelle scene in macchina gli sfondi non sono fatti con green screen ma con le retroproiezioni [la tecnica classica con cui si filmavano le scene in macchina già nei film in bianco e nero ndr]. Quel che oggi è cambiato nel cinema è semmai il passo, è molto più veloce, come se fossimo spaventati che il pubblico si annoi. Io sapevo che il nostro film avrebbe avuto un passo lento, per questo ho voluto scrivere la trama in modo che non si fermi mai, per far correre lei e non il ritmo.

Cos’è che spaventa uno come te che con la paura e la tensione ci lavora?

AA: Da piccolo avevo paura delle solite cose: fantasmi, demoni, buio, rimanere da solo... Ma allo stesso tempo ero attratto dai film di paura. I miei genitori non me li volevano far vedere così con mio fratello maggiore andavamo dai vicini che invece ce li mostravano. Spesso dunque mi sono trovato a dover scegliere se guardare o non guardare queste macchine di paura. Alla fine, a furia di imparare i trucchi del cinema, ho superato le mie ritrosie.

Il protagonista di Regression compie un lungo percorso che confina con la follia e la paura, con la religiosità e l’ateismo ma alla fine dice “Sono tornato ad usare il cervello”. È questo per lei essere atei?

AA: Il film non ha una struttura circolare e dall’altra parte non mi interessava andare troppo in profondità nel passato del protagonista, quel che è importante è che dall'inizio sappiamo che è un agnostico, cioè che si è fatto delle domande e si è posto il problema. Non volevo offendere nessuno, ci sono grandi scienziati che sono credenti, non è che chi ha fede non usi il cervello.
Io stesso a lungo ho voluto credere ma più ci pensavo meno ci credevo. Ho anche letto di recente The Kingdom di Carrer, lui è tornato al cattolicesimo qualche anno fa e per questo ha cominciato ad analizzare i vangeli con un’impostazione razionale, cercando di capire cosa sia concreto e cosa no. Era interessante ma non il mio problema, per me leggere i vangeli non è una sfida fisica, cioè credere ai fatti o ai miracoli come ad esempio uno possa resuscitare, ma soprattutto morale, non concordo con molte idee di Gesù.

È stato difficile portare Emma Watson dentro un personaggio lontano dal suo solito?

AA: Credo che un ruolo simile per lei fosse interessante proprio per cambiare registro. È un’attrice molto alla mano e ci siamo divertiti, anche perché cerco sempre di creare un clima rilassato sul set, in modo da avere gli attori a loro agio. Emma aveva estrema libertà e ha costruito il suo personaggio intorno a due elementi: “ho bisogno che tu mi creda” e “sto scappando”. E quello è bastato.

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