Alberto Barbera: “Il cinema d’autore non è più quello di un tempo”. Come è cambiato il suo Festival di Venezia
Agli Incontri di cinema d'essai il direttore Alberto Barbera ci ha parlato di come ha cambiato il Festival di Venezia per un nuovo pubblico
All’interno degli annuali Incontri di cinema d’essai organizzati dalla Federazione Italiana Cinema d’Essai (FICE) a Mantova, c’è stato un panel dal titolo Cinema italiano a una svolta, in cui si sono confrontati i produttori Benedetto Habib di Indiana, Marina Marzotto di Propaganda e il direttore della Mostra del cinema di VeneziaAlberto Barbera. La conversazione che vi proponiamo unisce alcune delle cose che sono state dette in questo incontro con delle battute scambiate in seguito con Alberto Barbera. Per esigenze di sintesi e chiarezza abbiamo condensato ciò che è stato detto in questi due spazi in un unico articolo.
“Il pubblico è cambiato. Noi continuiamo a lamentarci che lo spettatore anziano non va più al cinema perché non si fida o perché è stanco o ancora perché preferisce vedere film a casa. Poi ci lamentiamo del fatto che la fascia media degli spettatori non va al cinema perché ha i bambini e fa fatica a trovare il parcheggio o pagare la baby-sitter ecc. ecc. E non ci rendiamo conto invece che oggi il pubblico potenziale è composto da giovani giovanissimi. Lo dimostra il fatto che il pubblico di Venezia e dei festival è cambiato completamente negli ultimi anni! La maggior parte degli spettatori dei festival non sono più quel pubblico tradizionale a cui eravamo abituati ma è fatto da ragazzi e ragazzini, che hanno una curiosità e un interesse forte, anche se non sanno niente di cinema. È su questo che bisogna lavorare e ho l’impressione che le distribuzioni non ci stiano lavorando”.
Il punto che Barbera non può non notare è la sostanziale inerzia del mondo distributivo di fronte al cambiamento quando si parla di comunicare e promuovere i film italiani, di cui il pubblico tende a non sapere niente fino al momento in cui non escono effettivamente.
“Oggi i film italiani escono ex abrupto e hanno un minimo di sostegno, se se n’è parlato. Se invece non è così (e vale per la maggior parte dei film) lo spettatore potenziale si trova davanti a film di cui non sa nulla e se vuole saperne qualcosa deve cercarselo da sé. Ma uno spettatore normale lo fa questo lavoro? Ovviamente no, e se qualcuno non lo fa per lui è un problema insormontabile per la possibilità che un film arrivi al suo pubblico potenziale. Negli ultimi tempi davvero mi sono molto sorpreso che nessuno all'interno della filiera si sia mai posto questo problema: sappiamo che il cinema americano investe nel marketing spesso più del budget di produzione del film e parte un anno prima, con i risultati che sappiamo. Cioè fanno arrivare al pubblico i loro film a prescindere dalla loro qualità. Il fatto che in Italia nessuno proprio ci pensi mi lascia molto perplesso”.
“È un cambiamento in atto da tempo ma da dopo la pandemia c’è stata proprio una trasformazione (non conclusa) che ha reso i festival irrinunciabili. Proprio la possibilità di partecipare al festival è diventata una discriminante nelle strategie di promozione e marketing di un film. Mi sono accorto subito di quanto sia cresciuta la pressione di produttori e distributori per trovare una collocazione in un festival. Mai come in questi due anni ho ricevuto richieste pressanti se non proprio invocazioni d’aiuto disperate di produttori e distributori per trovare un posto per il loro film a Venezia. Mi dicono: ‘È importante!”, io cerco di spiegargli che magari quel film non va bene per Venezia e allora mi mandano mail: ‘Riconsideralo!’ - ‘Hai sbagliato’ - ‘Eri stanco quando l’hai visto’ - ‘È importante che sia a Venezia”...”
Parallelamente il cinema italiano, lo ha notato anche lui dal suo osservatorio da 230 film italiani visionati l’anno per la selezione, ha aumentato i suoi budget e quindi la qualità media.
“È successo che una serie di produttori tra cui anche Indiana ma pure Indigo e Wildside o TheApartment, hanno capito che bisogna alzare la qualità dei film investendo di più, bisogna mettere a disposizione di registi e cast più risorse. Nel giro di un anno o due anni il costo medio di produzione dei film italiani è cresciuto tantissimo, si è triplicato in certi casi. Non solo il risultato è che sono migliori da tutti i punti di vista, ma affrontano soggetti non per forza tradizionali, consentendo ai registi di avere sceneggiatori di qualità, cast di prestigio e via dicendo. In questo modo quel tipo di film hanno potenzialità commerciali non solo nazionali ma internazionali, e infatti quelli presentati in concorso a Venezia sono già stati venduti all’estero in molti paesi. Prima non avveniva e ce ne lamentavamo. È un dato confortante, perché andiamo verso un modello industriale che manca ma non è che modifichi completamente il mio giudizio sul cinema italiano. La quantità di film inutili, modesti per non dire brutti e che non hanno possibilità di raggiungere nessun tipo di pubblico è troppo elevata. Produciamo ancora tantissimo senza strategie di nessun tipo”.
Alla domanda di come tutti questi mutamenti (di pubblico, di marketing e di cinefilia) abbiano influito sul festival Barbera ha risposto spiegando la strategia che ha guidato la sua seconda direzione di Venezia (dal 2012 in poi).
“Almeno dal 2012 in poi mi sono esplicitamente detto che avremmo dovuto modificare i film che prendevamo per il festival. Nel senso che una volta i festival erano la rivendicazione del cinema d'autore, secondo una tipologia e dei criteri che corrispondevano alla politique des auteurs degli anni ‘60 e ‘70. Per decenni si è continuato a fare la selezione secondo quel modello lì e tutto quello che non corrispondeva a quel modello lì, come le grandi anteprime americane per esempio, magari trovava spazio a mezzanotte. Dal 2012 ci siamo detti che il cinema d'autore che esiste oggi non è più quello di un tempo. Lo stesso concetto di autore si è modificato nel corso del tempo e quindi avremmo dovuto modificare anche i nostri criteri di selezione. Essere più inclusivi e più aperti. Più disponibili capire dove si trovano gli autori anche dentro le strutture industriali e commerciali che una volta non avremmo considerato interessanti dal punto di vista di un Festival. L'esempio più eclatante è stato il fatto che Joker sia andato in competizione e abbia vinto”.
Abbiamo poi chiesto conto a Barbera di quanto ci aveva raccontato Luca Barbareschi in un’altra intervista riguardo i loro scontri del 2016, quando Barbareschi lo chiamò “portatore sano di forfora” in un’intervista a Il Fatto Quotidiano.
“Ci fu un’incomprensione. Era venuto a farmi vedere il film personalmente a Torino e mi aveva spiegato tutto. Siccome si era costruito un rapporto personale gli scrissi una lettera personale, invece di mandare la solita che mandiamo in quei casi. Gli spiegavo le ragioni del rifiuto di prendere il film. Adesso non mi ricordo più esattamente le parole che ho usato ma lui ha letto quella lettera erroneamente, come se io avessi detto una cosa che era l'opposto della mia intenzione, cioè come se avessi scritto che ero obbligato a prendere solo un certo tipo di film, da un certo tipo di autori, dei quali lui non fa parte. Ma questo perché lui ha la sindrome del cane sciolto e quindi l'aveva letta da quel punto di vista lì. Io invece volevo essere amichevole. Avevo detto che sostanzialmente mi erano piaciuti altri film più del suo”.
Quest’anno Barbareschi era a Venezia con due film, quello di Roman Polanski da lui prodotto e uno in cui è anche regista e attore. In questo quanto ha influito il fatto che da un certo momento in poi lui era in grado di “portare” Roman Polanski al festival?
“No per niente. Assurdo! Ci mancherebbe! Guarda se dovessi accettare dei meccanismi di scambio di questa natura, come facevano una volta i distributori che ti imponevano film piccoli per poter avere il film capofila che desideri, sarei finito”.
C’è chi dice che è così che funziona nei grandi festival, specialmente nelle trattative con i grandi venditori internazionali…
“No guarda ti assicuro che non è così. Tanto è vero che mentre a Barbareschi ho detto subito che prendevo Polanski fuori concorso, perché il film non mi aveva convinto fino in fondo. Per il suo film da regista e attore l’ho fatto aspettare fino all'ultimo momento, cioè ho aspettato prima di vedere tutti i film italiani e decidere quelli che volevo e quelli che non volevo. Non c’è mai stato uno scambio”.
Non farebbe un ragionamento di questo tipo per nessun film? Per avere un titolo molto grande o molto importante che anche altri festival vogliono, non ne prenderebbe anche uno più piccolo che altrimenti non le interesserebbe?
“Per fortuna non è mai successo che un produttore o un venditore me lo abbiano proposto. Comunque se accettassi mi giocherei credibilità e reputazione”.
Non sarebbe la fine del mondo. Film meno interessanti ce ne sono sempre nei festival!
“Sicuramente su 50 film che abbiamo ce ne sono che mi convincono meno, ma magari stanno lì perché penso che per un motivo o per l’altro vadano valorizzati o sostenuti. Quando però accetti di prendere un film perché ne vuoi un altro rischi di perdere la credibilità con quella persona, diventi subito uno comprabile e hai chiuso. Poi quello lo dice a un altro e hai creato le condizioni per la tua fine, hai aperto una strada per entrare al festival che prima non c’era e adesso tutti vorranno percorrerla. Io non voglio mai creare dei precedenti, perché sennò sono finito. Non faccio mai nessun tipo di eccezione, altrimenti l’anno dopo altre 20 produzioni la pretendono”