After Work: Erik Gandini ci parla del suo nuovo film e riflette sul futuro del lavoro

Erik Gandini, regista di After Work racconta la visione del futuro del mondo del lavoro e la sua poetica delle idee che liberano

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Il futuro del lavoro potrebbe essere… Senza lavoro. Parte da questa tesi After Work, il nuovo documentario di Erik Gandini in arrivo nelle sale il 15 giugno. 

Il soggetto principale sono le persone comuni, gli occupati e i disoccupati di quattro angoli del mondo. L’Italia, con il problema della disoccupazione giovanile. Il Kuwait, dove una fetta di popolazione fa i lavori più umili e pesanti, mentre l’altra è pagata dallo Stato per fingere di avere un’attività. L’etica del lavoro degli Stati Uniti e quella della Corea del Sud dove i turni davanti uno schermo raggiungono anche le 14 ore. Il documentario vuole parlare del presente per provare a ragionare sugli scenari futuri di un mondo in cui le macchine possano sostituire l'uomo. 

Abbiamo potuto parlare di questo con Erik Gandini, andando a scoprire il suo metodo di lavoro, le sue idee e come ha creato l’immagine più potente del film. Partiamo proprio da questa.  

L’inquadratura più agghiacciante è quella in Corea del Sud. Una figlia parla del padre, lui però è a fianco e continua a lavorare come se nulla fosse. L’hai organizzata tu?

Te lo direi se fosse una messa in scena, invece era veramente così. È fin troppo facile trovare in Corea persone della stessa generazione di questa ragazza che hanno esperienze simili di distanza con i padri. Anche la ministra del lavoro che abbiamo intervistato ha raccontato gli effetti sulla società dell’overwork, ma ha evidenziato anche le conseguenze, più difficili da quantificare, sulle relazioni tra i padri e figli. Questi ultimi crescono senza mai vedere il genitore.

I figli seguiranno le orme dei padri?

No, è un conflitto che crea molto attrito nella società sudcoreana. La generazione nata negli anni ’60 vede il tentativo del governo di cambiare la cultura del lavoro come qualcosa di insostenibile, frutto della pigrizia dei giovani. La classica prospettiva dell’anziano che guarda alle nuove generazioni non capendo la richiesta di una qualità della vita migliore. Credo che la stessa cosa stia succedendo anche nelle altre parti del mondo.

I NEET italiani (persone che non lavorano, non studiano e non cercano un impiego) sono parte dello stesso problema? Non solo derivano dall’alto tasso di disoccupazione ma esprimono anche rifiuto di un certo modello di lavoro?

Assolutamente sì e credo che venga fuori anche nel film. È facile vedere il fenomeno NEET come “l’aberrazione che porterà l’Italia allo sfacelo economico”. Questo è il cliché. L’obiettivo del film è stato cercare alternative all’etica del lavoro nelle sue forme disfunzionali. In Italia bisogna vedere chi siano veramente i NEET, immagino che dietro al dato ci sia anche molto lavoro nero. Però la cosa che mi interessava era provare a pensare che anche nella rivendicazione del “non lavoro” ci potesse essere qualcosa di sano, soprattutto in maniera opposta alla Corea o agli Stati Uniti.

Cosa ti ha dato l’idea per After Work?

Sono partito proprio dai NEET italiani. Il mio metodo di lavoro è di non stabilire a priori ogni capitolo per cui ogni ripresa ha portato a quella successiva. Ho giocato con l’imprevedibilità lasciandomi condurre dai miei personaggi e soprattutto dalle loro idee.

Nelle 4 prospettive che hai poi trovato sul tema, quella del Kuwait è particolarmente curiosa. Sembra un’utopia non dover far niente perché non c’è bisogno di te, ma percepire comunque uno stipendio. Eppure nel documentario diventa subito una distopia!

Quello che vedi in Kuwait è l’altra faccia della medaglia dell’ideologia del lavoro. In Corea del Sud assisti a una mancanza di immaginario collettivo, di fantasia su cosa ci potrebbe essere oltre il lavoro, tanto che lo stato deve proporre delle campagne pubblicitarie per stimolare il tempo libero. 

In Kuwait i dipendenti pubblici avrebbero la possibilità di non lavorare grazie al petrolio e al lavoro degli "schiavi" moderni (nel paese i lavori pesanti sono affidati agli immigrati e alle fasce più deboli). Non hanno però la capacità di immaginare un’alternativa e finiscono per rimanere dietro le scrivanie facendo finta di lavorare. Manca la fiducia nell’essere umano, al posto di dare un reddito di cittadinanza, anche notevole, e fargli fare quello che vogliono gli si dice sostanzialmente “eccoti i soldi però per cortesia fai finta di lavorare, perché se no…”. La mia domanda è: se no che cosa succede?

In After Work sentiamo la testimonianza di un’ereditiera. Nella sua vita, a differenza dei (non) lavoratori del Kuwait, non c’è noia. Ma questa condizione non è parte dello stesso problema? C’è chi si ammazza di lavoro perché deve e chi si è emancipato dal bisogno di lavorare. 

La questione è importantissima. Ero interessato a trovare una persona che non avesse mai avuto a che fare con obblighi o strutture prestabilite come quella lavorativa. Lei ogni giorno si sveglia e dice “cosa voglio fare”? Spesso queste figure di ricchi sono spesso ridicolizzate al cinema, mostrate come superficiali. Si dice che il lavoro nobilita l’uomo. Io, parlando con lei, mi sono chiesto se non sia la libertà a nobilitarci. Nel suo caso è la possibilità di scegliere liberamente cosa fare della propria giornata. 

After Work parte dal pensiero di Noam Chomsky sul lavoro automatizzato che può liberarci da un certo tipo di attività per dare spazio alla creatività. Con l’arrivo dell’intelligenza artificiale in pericolo è proprio il lavoro cognitivo…

Seguo Chomsky da molto tempo, ma mi ha comunque sorpreso la sua posizione così radicale sul concetto di adattarsi a un sistema in cui fai il dipendente, in cui vendi la tua creatività per altri. Lui la vede come un’enorme perdita di opportunità. Soprattutto se pensi al sistema educativo, se abbiamo della creatività ci viene smantellata da questo sistema che ci insegna ad essere disciplinati. 

Mentre per quanto riguarda l’intelligenza artificiale è stata una sorpresa per tutti. Il film era già pronto quando è arrivato ChatGPT. In un attimo ci siamo tutti resi conto della capacità “cognitiva” di queste tecnologie. Quella che lo rende capace di sostituire lavori come il tuo e il mio (ride). Ci si dovrebbe domandare però se ha senso sostituire lavori con la creatività, l’espressione, che magari ti piace fare.

Videocracy racconta l’influsso che le immagini hanno su di noi, la prigione che ci creiamo. Allo stesso modo in After Work racconti di Astrid, una driver di Amazon osservata, come in un “grande fratello” mentre è al lavoro. Poi tu fai un documentario su questo. Qual’è la tua idea di cinema? Le immagini, le cineprese, le storie, possono liberarci o sono uno strumento di controllo?

Bella domanda. In Videocracy mi interessava molto la forza delle idee. Accusavo Berlusconi di aver fatto sprofondare l’Italia in una videocrazia, cioè una democrazia in cui le immagini sono centrali. Anche con After Work ho voluto raccontare la forza delle idee. Il lavoro è sia una necessità che un’idea di emancipazione e di ricerca di significato. Non so se il mio lavoro con le immagini contribuisca a una liberazione. Sicuramente contribuisce al mio quotidiano ed egoistico bisogno di capire le cose, di dare un senso al presente.

Astrid ha le telecamere piazzate in faccia. Sa che appena sarà sostituibile verrà sostituita. Io però ho scoperto la sua storia grazie alle immagini. Lei fa parte di una comunità di autisti che hanno dei canali su YouTube in cui si raccontano, rivendicano e denunciano i problemi. Loro possono filmarsi, mentre i giornalisti e nemmeno i registi (io ci ho provato) non possono farlo. Per lei quindi, prendere il cellulare e puntarlo contro la telecamera che la riprende è una piccola rivincita molto importante. 

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