Venezia 74 - Outrage Coda, la recensione
Denso di dialoghi, pieno di personaggi ma vivo solo quando è in scena il suo protagonista, Outrage Coda chiude la trilogia senza entusiasmo
Takeshi Kitano chiude la sua trilogia su Outrage con un film finale perfettamente in linea con la confusione dei primi due. Moltissimi dialoghi, molti personaggi e una voglia di affondare le mani nei principi e nell’etica della yakuza che rendono il film difficile da seguire per chi non sia appassionato del genere o conoscitore della materia. Infatti, nonostante gli Outrage siano i film che hanno riportato Kitano al successo, lo stesso appaiono molto spuntati se li si valuta con il metro dei suoi precedenti film criminali.
Gli yakuza non sono diversi dalle altre persone e Kitano sembra guardare queste associazioni con rispetto. Sono criminali e sono violenti, ma hanno un codice e sono coerenti. Nel loro mondo di abiti, divisi e rigide strutture vige un ordine che il comico diventato regista ama distruggere con esplosioni di violenza inattesa, ma che in fondo non vuole distruggere davvero.
Con il volto impassibile e a tratti esilarante del suo autore, sempre occhiali da sole inforcati, Otomo è davvero l’unica componente che animi i film Outrage. Quando non è in campo lui ci vuole una morte efferata e creativa per rimettere in carreggiata il film ed evitare che si perda dietro dialoghi epurati di quell’ironia che invece una volta regnava.
Peccato quindi che questi film sembrino aver dimenticato quanto il segreto del Kitano più amato risieda in una sensibilità fuori dal comune che si alimenta con l’umorismo e l’ironia cinica e non viceversa. Gli Outrage sembrano aver dimenticato che in Sonatine (di cui cita lo sparo nel finale) ciò che colpisce tutti è il contrasto tra leggerezza e pesantezza, in Hana Bi sono la stasi e la disperazione a commuovere. Outrage, anche in questo terzo film, è più convenzionale, trova forse un pubblico maggiore ma perde l’anima di Kitano.