The Sojourn racconta la crescita un enigma alla volta | Recensione
The Sojourn è un puzzle game ben fatto, artisticamente ispirato e strutturalmente solido, forse troppo, tanto da diventare un po’ rigido e faticoso da digerire
The Sojourn | Recensione
Cosa vuol dire crescere? A chiederselo e a provare a raccontarlo è Shifting Tides, team di sviluppo britannico, con il suo The Sojourn, un soggiorno che è più un viaggio metaforico alla ricerca della consapevolezza e della maturità alla scoperta del mondo. Un percorso irto di ostacoli e disseminato di rompicapi da risolvere, in un titolo che si inserisce nel solco tracciato da famosi esponenti del genere dei puzzle game in prima persona, come The Witness e The Talos Principle, ritagliandosi il suo spazio con personalità e un’identità ben definita.
[caption id="attachment_200466" align="aligncenter" width="1920"] I puzzle diventano progressivamente più complessi e, soprattutto, coinvolgono sempre più elementi di gioco[/caption]
A una confezione artistica pregevole, The Sojourn accompagna una struttura di gioco tutto sommato non troppo originale, ma solida e ben strutturata. L’idea alla base, per ogni livello (fisicamente diviso da un altro da barriere da oltrepassare) è quella di raggiungere il punto B a partire dal punto A, risolvendo una serie di enigmi ambientali di tipo logico, sfruttando le peculiarità dei due mondi. Quello della luce è l’universo esplicito, fatto di concretezza, quello delle tenebre è dove, spesso, gli oggetti acquisiscono poteri magici. Nel primo mondo possiamo stare tutto il tempo che vogliamo, mentre, dopo aver varcato la soglia dell’oscurità grazie a strane fonti di energia, abbiamo a disposizione un limite di spazio percorribile dall’altra parte prima di tornare indietro. Per fare un esempio banale, nei primi livelli ci sono delle statue che è possibile attivare nel mondo oscuro e con cui si può scambiare posizione. Di fatto diventano delle pietre del teletrasporto, per cui la chiave degli enigmi iniziali è quella di costruire un passaggio verso zone inaccessibili utilizzando le statue per estendere il raggio d’azione del movimento nell’altro mondo.
Se nel quadro generale non c’è nulla che davvero non funzioni in The Sojourn, la sua struttura rigida finisce per appesantire un po’ il già non elevato ritmo di gioco. La necessità di affrontare in maniera obbligatoria e consecutiva tutti i rompicapo (così come l’assenza di qualsivoglia indizio) vuol dire che nel caso in cui ci si blocchi in un livello non c’è mai la possibilità di distrarsi all’interno del mondo di gioco per respirare e attivare il pensiero laterale, ma bisogna semplicemente continuare a sbatterci su la testa. Allo stesso modo, la ripetizione di alcune meccaniche per costruire un linguaggio base su cui innestare i nuovi elementi per risolvere gli enigmi successivi finisce per dare una sensazione di ripetitività che obbliga a spezzare spesso le sessioni. Paradossalmente, l’atmosfera placida e intima, così come il ritmo sempre compassato, diventano opprimenti e la sensazione complessiva è che la decina di ore scarse necessarie a completare il gioco siano quasi eccessive. Con qualche livello in meno il percorso di crescita non sarebbe stato meno efficace e, allo stesso tempo, The Sojourn avrebbe respirato di più, pur conservando le sue peculiarità.
[caption id="attachment_200465" align="aligncenter" width="1920"] I contrasti tra luce e ombra sono allo stesso tempo strumento ludico ed elemento portante della direzione artistica[/caption]
Infine, c’è una strana contraddizione tra il racconto, per carità, metaforico e secondario nel peso dell’opera, e il gameplay. Gli enigmi di The Sojourn non prevedono creatività emergente, o soluzioni alternative. Si tratta di mettere tutto al proprio posto, attivare in maniera precisissima e univoca gli oggetti al momento giusto, facendo attenzione al millimetro alla distanza percorsa nel mondo dell’oscurità. Molti rompicapi sono senza dubbio efficaci e brillanti, e gli elementi narrativi di intermezzo, volutamente ambigui, regalano un’atmosfera affascinante al titolo d’esordio di Shifting Tides, ma la sua rigidità complessiva stride col concetto stesso di percorso di crescita. Acquisire consapevolezza, trovare una strada e completare un percorso rappresentano di certo una parabola fatta di enigmi da risolvere, ma ne farebbe parte altrettanto la conquista della libertà. Ridurre tutto a un percorso prestabilito lineare stride un po’ con il tema del gioco e ne riduce un po’ l’efficacia dal punto di vista comunicativo. Tuttavia, The Sojourn resta un puzzle game ben fatto, artisticamente ispirato e strutturalmente solido, forse troppo, tanto da diventare un po’ rigido e faticoso da digerire.
A cura di Davide Mancini