The Get Down (parte 1): la recensione
Ecco la nostra recensione della prima parte di The Get Down, serie Netflix ideata e prodotta da Baz Luhrmann, incentrata sulla nascita dell'hip hop e del rap
Se l'ombra del fallimento di The Get Down appare nitida nella prima puntata, un'improvvisa luce chiarificatrice arriva, già nel secondo episodio, a smussare i contorni spigolosi di protagonisti tagliati con l'accetta, ad asciugare i barocchismi della regia e della messinscena, aiutando il frastornato spettatore a riconoscere gradualmente i distinti fili conduttori della macchina drammatica. Le vicende del giovane Zeke e della coetanea Mylene (Herizen F. Guardiola) diventano le due colonne portanti della struttura narrativa. Certi espedienti già mostrati nel pilot assumono un'importanza narrativa più marcata: il rap di Zeke, con la sua ritmica martellante e le sue rime, assurge in alcuni momenti quasi a moderna rivisitazione dei versi delle tragedie shakespeariane.
E, come spesso avviene nei drammi del bardo, le figure più interessanti sul grande palco di The Get Down risultano essere quelle secondarie: Francisco Cruz (Jimmy Smits), detto Papa Fuente, zio (o forse addirittura padre naturale?) di Mylene, politico influente che si muove tra la corruzione e il sogno di tramutare il devastato Bronx in un luogo vivibile per la comunità di derelitti di cui i protagonisti fanno parte; Frankie Moreno (Kevin Corrigan), produttore in declino che vede nella voce della giovanissima Mylene l'occasione per riscattarsi, vittima peraltro di uno dei rari casi - nella storia televisiva - di abuso sessuale da parte di una donna; l'adolescente Marcus "Dizzee" Kipling (Jaden Smith), graffitaro sognatore alla scoperta del proprio orientamento sessuale. E con loro anche tanti altri comprimari, tratteggiati con sapienza, a creare un mosaico umano variopinto ma credibile.Al di là dei singoli personaggi, sta di fatto che la protagonista implicita della serie sia la musica, declinata in quegli anni in forme mai sperimentate prima, esaltata attraverso le parole di coloro che, attraverso di essa, stanno cercando un riscatto altrimenti impensabile, in una New York stretta nella morsa della disoccupazione, della criminalità e, elemento non trascurabile, del caldo asfissiante che diviene metafora del soffocamento sociale. Un fiume di esseri umani imperlati di sudore, ma dotati di superpoteri - frequenti e azzeccati i parallelismi col mondo del fumetto - quando si tratta di dedicarsi al get down, lo scambio alla base dei remix dei disk jokey emergenti. Sullo stesso binario della musica, non solo metaforicamente, corre anche quello di un'arte figurativa che si mescola alla creazione poetica, dando vita ai murales che, oltre a presentare di volta in volta i titoli degli episodi, fungono da motivatore per i protagonisti in svariati momenti chiave della storia.
Se un difetto va rintracciato nell'insieme di questi primi sei episodi, è la ripetitività di certe situazioni: Zeke diviso tra l'amico aspirante dj Shaolin Fantastic (Shameik Moore) e l'amata Mylene, la ragazza su un'incessante altalena tra speranze e delusioni, gli stessi problemi e litigi che rischiano di far assumere, alle puntate, uno scheletro di trama verticale quasi identico. Negli ultimi due episodi, tuttavia, lo sguardo sembra aprirsi a nuovi orizzonti, e promettere uno svolgimento più imprevedibile nella prossima tranche di puntate. Per ora, dopo aver arrancato con qualche difficoltà oltre la prima ora e mezza, possiamo ammirare un panorama caleidoscopico e abbacinante, perfetta eco della Manhattan sognata e adorata da lontano dagli innamorati Zeke e Mylene nel riconciliante finale della sesta puntata.