Sanctuary - Lui fa il gioco, lei fa le regole, la recensione

Un film su passioni perverse che si rivela molto intellettuale. Non bastano le ottime prove dei due attori a salvare Sanctuary

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La nostra recensione di Sanctuary - lui fa il gioco, lei fa le regole, dal 25 maggio al cinema

Ci sono un giovane uomo, Alexander, e una giovane donna, Rebecca, in una lussuosa stanza d'albergo, ma qualcosa fin da subito stona col quadro che ci si poteva attendere. Lei infatti si presenta come un avvocato e lo sottopone a un'intervista formale che degenera in domande imbarazzanti. In verità leggono un copione, lei è una dominatrice sessuale mentre lui un rampollo di una famiglia proprietaria di una catena d'alberghi. Dopo la morte del padre, ne sta per ereditare le fortune e per questo vorrebbe recidere definitivamente i legami con una donna che conosce tutto di lui. Da qui parte un gioco sessuale sadico tra i due, una serie di rivelazioni che ribaltano continuamente le carte in tavola. Ma che nella sostanza non deviano da quanto stabilito dalle prime scene.

Tutto girato in una singola stanza, Sanctuary, secondo film di Zachary Wigon, si muove su coordinate ben precise. In primo piano, c'è la questione di genere, con un ribaltamento di ruoli alla luce del sole. La nuova posizione della donna non più succube, la paura dell'uomo nei suoi confronti, una sessualità complessa da entrambe le parti. La questione di classe: lui quello ricchissimo che non sa bene come gestire le finanze, lei quella meno abbiente pronta ad approfittare dell'altro. Il rapporto tra realtà e finzione: il "gioco" che i due protagonisti intraprendono, le rappresentazioni che mettono in scena e la difficoltà poi a distinguere i due piani. C'è infine la dimensione famigliare: l'ombra ingombrante del padre da cui Alexander non è mai riuscito a emanciparsi. Tratti ben poco originali, che, cercando di rispecchiare l'attuale panorama (sociale e cinematografico), non ne forniscono una nuova prospettiva.

Tanto quanto i due protagonisti sono presi dal vortice della loro relazione, tanto poco lo è lo spettatore, che guarda con distacco le loro vicende. Paradossalmente, un film che parla di passione e sesso risulta infatti molto intellettuale. Non tanto nella messa in scena (dove certo non mancano momenti molto forti), quando nell'orizzonte complessivo. Una volta stabilito che si parla di rivendicazione femminile, le tante piccole svolte dovrebbero sospendere, ma non ci riescono, perché non propongono mai un effettivo cambio di rotta della narrazione. Le tesi che Sanctuary porta avanti riducono il piacere del racconto, molto meno audace di quanto si presenti. E un finale blando vanifica le sfumature dei personaggi che in precedenza si era iniziato a intravedere.

Tutto questo risulta ancora più chiaro quando Wigon esplicita la propria mano con alcune soluzioni che però, senza una base solida, risultano ininfluenti. Rovesciamenti dell'inquadratura, repenti e improvvisi movimenti di macchina, una fotografia accesa giocata su tonalità rosso-ocra che passa ad altre più scure nel passaggio più intimistico della storia. Sottolineature dei momenti chiave che provano a compensare quello che non fa la narrazione. Così, nemmeno le ottime prove dei due attori riescono a salvare il film. Christopher Abbott è a suo agio nel ruolo di maschio goffo, imbranato e sottomesso. Ma è soprattutto Margaret Qualley a confermare il suo talento, in un personaggio seducente e inafferrabile.

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