Sanctuary - Lui fa il gioco, lei fa le regole, la recensione
Un film su passioni perverse che si rivela molto intellettuale. Non bastano le ottime prove dei due attori a salvare Sanctuary
La nostra recensione di Sanctuary - lui fa il gioco, lei fa le regole, dal 25 maggio al cinema
Tutto girato in una singola stanza, Sanctuary, secondo film di Zachary Wigon, si muove su coordinate ben precise. In primo piano, c'è la questione di genere, con un ribaltamento di ruoli alla luce del sole. La nuova posizione della donna non più succube, la paura dell'uomo nei suoi confronti, una sessualità complessa da entrambe le parti. La questione di classe: lui quello ricchissimo che non sa bene come gestire le finanze, lei quella meno abbiente pronta ad approfittare dell'altro. Il rapporto tra realtà e finzione: il "gioco" che i due protagonisti intraprendono, le rappresentazioni che mettono in scena e la difficoltà poi a distinguere i due piani. C'è infine la dimensione famigliare: l'ombra ingombrante del padre da cui Alexander non è mai riuscito a emanciparsi. Tratti ben poco originali, che, cercando di rispecchiare l'attuale panorama (sociale e cinematografico), non ne forniscono una nuova prospettiva.
Tutto questo risulta ancora più chiaro quando Wigon esplicita la propria mano con alcune soluzioni che però, senza una base solida, risultano ininfluenti. Rovesciamenti dell'inquadratura, repenti e improvvisi movimenti di macchina, una fotografia accesa giocata su tonalità rosso-ocra che passa ad altre più scure nel passaggio più intimistico della storia. Sottolineature dei momenti chiave che provano a compensare quello che non fa la narrazione. Così, nemmeno le ottime prove dei due attori riescono a salvare il film. Christopher Abbott è a suo agio nel ruolo di maschio goffo, imbranato e sottomesso. Ma è soprattutto Margaret Qualley a confermare il suo talento, in un personaggio seducente e inafferrabile.