Pathway non è all'altezza della sua illustre ispirazione - Recensione
Il videogioco non ufficiale di Indiana Jones: la recensione di Pathway
È attraverso cinque differenti campagne e varie nazioni che si dipana un'avventura dalla trama esile (ma poco importa), nella quale un gruppo di personaggi che vanno dal classico al bizzarro, tra avventurieri, membri della resistenza, capitani di vascello, spie, scienziati, preti persino, e altri ancora cerca di contrastare i nazisti, impegnati nella ricerca di mitici oggetti che possano innalzare ulteriormente il prestigio del Terzo Reich. È perfettamente inutile sottolineare ulteriormente da dove tale canovaccio provenga, quanto invece va rilevato è come mai si percepisca la sensazione di già visto, nonostante la familiarità con ogni singolo elemento dell'immaginario. Pathway ha una sua identità insomma, in larghissima part per merito di una tecnica sublime, con una dettagliatissima pixel art che dipinge scorci che trasudano stile e cura e tratteggia personaggi magari non memorabili, ma efficaci e vari.
Dove il gioco non riesce a trovare una dimensione ideale è, purtroppo,nel gameplay, che propone tante idee buone ma non accompagna ad esse una esecuzione di qualità. Nelle primissime ore di gioco Pathway praticamente esprime già tutta la sua essenza ludica, e non è un caso che il primo approccio sia addirittura esaltante. Selezionata la prima spedizione e scelti i partecipanti si parte per un'avventura il cui svolgimento è indicati dai percorsi (generati casualmente a ogni partita) che si ramificano su una mappa. In ogni loro punto può succedere qualcosa, siano essi eventi casuali o quelli indicati da apposite icone, tra mercanteggiamenti, la possibilità di reclutare nuovi compagni, luoghi misteriosi e, ovviamente, combattimenti. Gli spostamenti, a bordo di un fuoristrada, non sono una operazione meccanica, occorre infatti gestire in maniera sapiente il carburante per non rimanere a secco e lasciare la compagnia in balìa della natura.
[caption id="attachment_195043" align="aligncenter" width="1920"] È impossibile non rimanere rapiti dall'estetica del gioco[/caption]
Lo stesso discorso vale per gli scontri a fuoco, declinati secondo le meccaniche di uno strategico a turni nel quale l'utilizzo delle coperture è in sostanza l'unico elemento da tenere in considerazione per uscire vincitori. Stare dietro un riparo più o meno solido diminuisce di poco o annulla totalmente la possibilità di essere colpiti, vale per tutte le unità in campo, le proprie e i nemici, e per sbarazzarsi dei nemici la tattica migliore è sempre l'accerchiamento, anche perché per vincere occorre sempre e solo stendere tutti gli avversari, mai i combattimenti hanno dinamiche e requisiti diversi. In questo contesto è facile dedurre come all'atto pratico l'equipaggiamento e le abilità dei molti personaggi risultino poco influenti nell'economia delle sparatorie e quindi nel valorizzare il gameplay. Ne viene banalizzata anche la componente roguelike, che permette loro di conservare armi, protezioni e livelli in caso di fallimento di una spedizione.
È per questi motivi che Pathway fallisce nel costruire un'esperienza di gioco di elevata qualità sul lungo periodo. Esaurisce in pochissime ore la sua proposta ludica, dopo di esse non crolla, ma non riesce comunque più a stimolare il giocatore con una varietà adeguata, condannandolo ad una monotona ripetitività. Il team di sviluppo ha promesso novità in tal senso, ma nella loro attesa il giudizio non può andare oltre una sufficienza che, vista la qualità di certi aspetti del gioco, come l'ispirazione, lo stile, l'accompagnamento musicale, lo etichetta come un'occasione sprecata.