Napoli Velata, la recensione

Due film in uno, Napoli Velata non riesce però a far decollare nessuno dei due

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
In Napoli Velata c’è un problema: ci sono due film che si dividono l’attenzione del pubblico e si affossano a vicenda. C’è uno psico-thriller erotico depalmiano a cui è stata sottratta tutta la suspense e il tecnicismo, oltre al lavoro sul corpo (quindi lasciando solo le suggestioni psicologiche), e c’è un’esplorazione della Napoli magica. Quando uno di questi due film comincia a guadagnare un po’ di mordente, arriva l’altro a prendere il suo posto e viceversa fino alla fine. Il risultato è un ritmo compassato da passeggiata serale fatta guardando le stelle, una vera maledizione che distrugge l’andamento narrativo.

Nel voler raccontare prima di tutto Napoli, Ozpetek non commette lo stesso errore di Rosso Istanbul (in cui la città praticamente non c’era) e la esplora in tutti i versi e sensi, con la scusa dell’esoterismo tribale. Ci sono i trans magici, i bassifondi con le veggenti, le grandi terrazze, le zone panoramiche, i monumenti, le opere d’arte e il centro, tutto a carattere magico e fantasmatico. Certo il film non manca mai di indugiare sullo stereotipo della teatralità della città, anzi lo ama e vuole rappresentarlo senza vergogna, così come vuole cavalcare qualsiasi tipo di retorica su Napoli. Non darne un’idea diversa ma mettere in scena proprio quel che già si sa, si dice e si ripete.

Tuttavia, siccome in questi anni Napoli è diventata il centro di tutto il nostro cinema criminale, non manca anche una storia di omicidi e pazzia, in cui le donne si litigano e spolpano uomini-oggetto che ci sono e non ci sono (non fa poi tutta questa differenza), tutto sotto il grande metaforone del guardare ed essere guardati (di nuovo De Palma) presente fin dal titolo.

È un trionfo di velleità, metafore e suggestioni che non si fanno mai film, non si fanno mai armonia a servizio di una storia o (magari) di un’invenzione visiva che regga ogni scena. A Napoli Velata manca totalmente la capacità che più pensa di avere, quella di creare immagini così sofisticate che possano consentirgli la vaghezza narrativa di cui fa sfoggio e il ritmo blando che cerca. Anche la scelta di far recitare i suoi attori principali con uno stile distaccato e lontano, come guardassero sempre oltre e fossero in trance, si rivela tremendamente sconfortante in questa generale povertà d’intenti e mezzi, e se Giovanna Mezzogiorno sembra tutto sommato a suo agio, lo stile disinnesca totalmente i pregi e le doti di Alessandro Borghi. Non che non ci sia impegno in tutto questo (era nel film precedente che si aveva l’impressione che qualcuno avesse tirato i remi in barca), ma ogni sforzo pare andare nella direzione meno utile al risultato finale.

E dire che questa volta Ozpetek aveva ritirato fuori dal cilindro un buon classico del suo repertorio, uno che viene dritto dal cinema almodovariano e che anche qui costituisce la parte migliore del film. È la capacità di ambientare le sue storie in una curiosa quotidianità in cui non esiste l’ordinario e il banale, fatta di mestieri diversi dal solito, pratiche diverse dal solito, abiti, usi, abitudini, impegni, discipline e anche incontri diversi dal solito. Invece che confermare al pubblico che ciò che possa essere ritenuto “normale” a tutti i livelli sia ciò a cui sono abituati, il mondo in cui si muovono i personaggi di Ozpetek afferma il contrario e lo fa rifuggendo le caratterizzazioni convenzionali. È un mondo di persone a loro modo “originali” che tutte insieme non sono più tali e creano una realtà eterogenea in cui la normalità non esiste, esistono solo tante differenze. Forse così ci si avvicina di più alla vita che viviamo, forse no, di certo è un modo di immaginare il cinema personale e suggestivo.

Continua a leggere su BadTaste