Messiah: la recensione

Una storia come quella raccontata nella serie di Netflix Messiah si presterebbe ad un'altissima complessità, ma non è questo il caso

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Messiah: la recensione della serie Netflix

Una storia come quella raccontata in Messiah si presterebbe ad un'altissima complessità, ma non è questo il caso. C'è geopolitica, dramma, thriller e ovviamente religione e spiritualità in questa serie Netflix che parte da uno spunto sulla carta fortissimo, ma che non riesce a decollare come racconto. La prima serie del 2020 della piattaforma si innamora essa stessa del fascino che dovrebbe emanare il suo protagonista, ma, persa nella sua ammirazione, non riesce a veicolare quel racconto all'esterno. Fino al punto in cui ci si chiede se ormai anche una premessa così estrema sia capace di risultare provocatoria al giorno d'oggi.

La storia è quella di Al-Massih (Mehdi Dehbi), misteriosa e carismatica figura che appare in Siria. L'uomo raccoglie un certo numero di fedeli che ascoltano il suo messaggio e le sue parole. La folla si dirige verso il confine israeliano, e rischia di creare un incidente internazionale. Una serie di eventi dai contorni straordinari e forse sovrannaturali concentrano l'attenzione del mondo intero su quel che sta accadendo. La vicenda si sposta negli Stati Uniti, influenza le alte sfere, assume contorni sempre più grandi, che oltrepassano ogni confine. Un'agente della CIA, Eva Geller (Michelle Monaghan), sicura dell'inganno che deve nascondersi dietro tutto, indaga sull'uomo per scoprire la verità.

La scrittura della serie è attenta a distinguere tra figura messianica e figura cristologica, ma in ogni caso questa non è la rappresentazione più interessante di questo tipo che abbiamo visto di recente. Ci sono state le versioni multiple di Gesù in American Gods, e quelle molto blasfeme di Preacher: senza dubbio esagerate, quasi caricaturali, dove invece Messiah chiede per sé una fortissima serietà di fondo. Ma, a fronte di tutta la propria ambizione, la serie non propone una complessità di linguaggio, temi, esposizione, intreccio. E, come detto, in dieci episodi non riesce mai ad essere provocatoria.

La geopolitica è argomento ostico da trattare per qualunque serie tv: Black Earth Rising si incagliava in quel tipo di narrazione, The Honourable Woman ci riusciva a fatica, Homeland ha trovato un modo tutto suo e irripetibile per raccontarla. Messiah opta per un approccio quasi privo di scelta. La serie non rinuncia a nessuno spunto, ma sembra quasi una scelta finalizzata ad aumentare il minutaggio e a rimpolpare l'intreccio. Lo scacchiere mediorientale è narrato in modo semplicistico, le figure politiche – perfino il Presidente degli Stati Uniti – sono ridotte a pure e ingenue componenti umane, la serie salta da una vicenda secondaria all'altra. E ce le ritroveremo continuamente queste piccolissime storie con poco da dire ad accompagnare l'intreccio.

Ma, al cuore della vicenda, non è nemmeno ben chiaro il nucleo profondo della storia. Lo stesso messaggio del Messia, figura dalla presenza carismatica e dalle parole vaghe, più politico dei politici stessi, non è mai del tutto chiaro. La chiamata al risveglio, un senso di insoddisfazione e ingiustizia condiviso, un vago sincretismo mai approfondito ma solo lasciato intuire. C'è tutto, tranne l'elaborazione. Così, presentando una molteplicità di punti di vista superficiali, Messiah non innesca dibattiti o riflessioni.

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