Maze Runner: La Rivelazione, la recensione
L'ultimo capitolo della serie Maze Runner rivela l'ultima carta che il franchise ha da giocarsi: il bromance
Come i suoi modelli (Divergent e Hunger Games) anche Maze Runner passa dallo spunto iniziale al racconto di un futuro tra governo e ribelli (con l’aggiunta di qualcosa simile agli zombie), in cui nessuna fazione è affidabile ed entrambe cercano il potere, mentre il protagonista (e qualche alleato) ha un obiettivo più personale e sentimentale. In questo terzo film siamo arrivati al rituale attacco finale, in cui il governo centrale e la città che marginalizza gli altri esseri umani sono il bersaglio del gruppo di ragazzi fuggiti dal labirinto.
La perdita dello spunto si fa sentire maggiormente in Maze Runner, che su quello fondava la sua esigenze di sostituire ai dialoghi l’azione per riconquistare il suo genere di riferimento. Già il secondo film, non potendo più usare quell'idea, metteva in scena una generica action senza fascino o abilità, ambientata in uno scenario troppo simile ad un Mad Max ridotto ai minimi termini. Ora il terzo per chiudere tutte le trame deve necessariamente puntare su altro. Quel che rimane è quindi la gigantesca celebrazione dell’amicizia virile.I protagonisti di Maze Runner sono ragazzi che non sembrano avere interesse per le ragazze (a parte il protagonista), le cui questioni emotive riguardano la fiducia che hanno negli altri, il superamento delle reciproche rivalità e la conquista di un obiettivo tutti insieme o il salvataggio di un amico. Maze Runner nel suo terzo capitolo diventa così tanto una storia di bromance che addirittura questo viene esteso all’unica donna del gruppo, che viene considerata più un amico che un possibile interesse romantico.
In questo senso, ora che la saga è finita (almeno così pare), Maze Runner si presenta come una reazione uguale e contraria al cinema young adult al femminile, un tentativo purtroppo più goffo che sincero di riportare quel genere nell’alveo delle storie di uomini.