L'ultimo paradiso, la recensione
Nel suo desiderio di unire il reale e il simbolico, il passionale e il meditato, L'ultimo paradiso fa un'operazione logicamente chiara ma sentimentalmente inefficace
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Non ci riesce perché l’amalgama di tradizionale e libero, di sentimentale e raffreddato non trova mai il suo equilibrio. C’è una storia d’amore funesta che raramente mostra la passionalità che invece la trama ci fa capire esserci (solo alla fine con una scena di bacio rubato che però arriva troppo tardi) e c’è poi un nuovo personaggio che entra a metà che porta invece un tono molto più meditabondo e distante ma non per questo meno partecipe. Lui è pensato proprio per essere un alieno, qualcuno che non appartiene più a quel contesto, ma la sua presenza nella storia e nel film sembra sempre avere giustificazioni più cerebrali che emotive o di partecipazione. Capiamo perché stia lì e che economia abbia nel racconto ma non partecipiamo mai a quello che dovrebbe portare nel sentito.
E non che sia recitato male L’ultimo paradiso. Anzi. Sia Riccardo Scamarcio (qui anche sceneggiatore e produttore) che Antonio Gerardi che poi una buonissima parte dei comprimari fanno un ottimo lavoro su quel misto indispensabile di adesione a figure archetipe e loro trasfigurazione in personaggi cinematografici. L’impressione è proprio che quel tono così complicato e così sofisticato che il film cerca con invidiabile libertà sia lontano. E quando nel finale c’è una concessione più forte che nel resto del film al simbolico, un momento che dovrebbe tirare diverse fila sia di senso che di sentimento, è ancora più forte la sensazione che le intenzioni di lavorare su un rimando molto astratto degli eventi trattati siano più forti della riuscita di questi rimandi.Sei d'accordo con la recensione di L'ultimo paradiso? Scrivicelo nei commenti dopo averlo visto su Netflix dal 5 febbraio