L'Ora Più Buia, la recensione

La guerra di L'Ora Più Buia è un inferno di parole, lontano dal fronte ma ugualmente furioso, fatto di dialettica, pensiero e un'infaticabile voglia di vincere

Critico e giornalista cinematografico


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Forse è proprio al racconto di eventi come quello di Dunkirk, visto dal fronte interno, dalle aule della politica, che si presta davvero bene il cinema di Joe Wright, con i suoi personaggi che si battono sempre contro qualcosa di astratto e lontano, con il ticchettio che si confonde nella colonna sonora e crea un tempo incalzante e con la sua cura ossessiva del sonoro. Non è certo un regista dal tratto lieve Wright, che qui fa entrare in scena Churchill con il fuoco del sigaro nel buio come fosse Kurtz di Apocalypse Now!, introdotto dagli elementi distintivi del suo costume (la bombetta) come fosse Indiana Jones. Un eroe. Non nasconde il suo parteggiare, non limita l’enfasi.

Fin dal titolo L’Ora Più Buia dunque non lesina in retorica, né cerca il tratto fine. Ma se davvero servissero ulteriori indizi basta l’inizio, le scene di repertorio in silenzio e poi il boato non della guerra ma del parlamento inglese, con un carrello volante impossibile che sottolinea questa massa di uomini vestiti tutti uguali, in delirio, nell’atto di combattere con le parole. La storia di Dunkirk, vista internamente, del resto questo è: guerra a parole, in cui la dialettica è l’arma del confronto è in cui le parole possono ispirare animi, cambiare le carte in tavola e trasformare una sconfitta dei corpi in una vittoria dello spirito.

È questa la Dunkirk di Wright, concepita quasi in contemporaneamente a quella di Nolan, ma completamente diversaÈ questa la Dunkirk di Wright, concepita quasi in contemporaneamente a quella di Nolan, ma completamente diversa, senza nemmeno un granello di sabbia e tutta addosso a Churchill/Oldman, truccato per scomparire dentro al personaggio, fissatissimo con il suo delle parole, della lingua, del borbottìo. Vedere questo film doppiato è come vedere Il Mago di Oz in bianco e nero. Non solo se ne perde una delle componenti più determinanti, ma si rischia di non capirne il fine ultimo, la visione di un mondo come lo conosciamo, la cui essenza è rivelata dalla manipolazione dei rumori e dei suoni.

Con la più classica delle scansioni temporali da Wright, i giorni si susseguono in sovrimpressione mentre i piani falliscono, la Germania avanza e la sconfitta è inevitabile. La battaglia della politica combattuta in parallelo a quella effettiva. Anche per questo motivo, in questo film di guerra in cui non c’è nemmeno un soldato e non si spara nemmeno un colpo, stona così tanto uno dei momenti cardine, quello tra Churchill e il popolo in metropolitana. Tutto il film fino a quel punto ha tenuto la finzione e l’implausibilità tipica del cinema a bada, ha sovraccaricato la messa in scena ma lasciando intuire la plausibilità degli eventi, a quel punto invece decide di mettere entrambi i piedi nella propaganda e nell’ideologia, mandando a monte il lavoro di fino fatto.

È il limite di L’Ora Più Buia: avere un’idea drammaturgica così forte per raccontare una storia che affonda le mani nella realtà, ma poi non saper resistere e lasciar emergere a galla, visibile a tutti, l’agiografia del proprio protagonista.

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