L'Ora Più Buia, la recensione
La guerra di L'Ora Più Buia è un inferno di parole, lontano dal fronte ma ugualmente furioso, fatto di dialettica, pensiero e un'infaticabile voglia di vincere
Fin dal titolo L’Ora Più Buia dunque non lesina in retorica, né cerca il tratto fine. Ma se davvero servissero ulteriori indizi basta l’inizio, le scene di repertorio in silenzio e poi il boato non della guerra ma del parlamento inglese, con un carrello volante impossibile che sottolinea questa massa di uomini vestiti tutti uguali, in delirio, nell’atto di combattere con le parole. La storia di Dunkirk, vista internamente, del resto questo è: guerra a parole, in cui la dialettica è l’arma del confronto è in cui le parole possono ispirare animi, cambiare le carte in tavola e trasformare una sconfitta dei corpi in una vittoria dello spirito.
Con la più classica delle scansioni temporali da Wright, i giorni si susseguono in sovrimpressione mentre i piani falliscono, la Germania avanza e la sconfitta è inevitabile. La battaglia della politica combattuta in parallelo a quella effettiva. Anche per questo motivo, in questo film di guerra in cui non c’è nemmeno un soldato e non si spara nemmeno un colpo, stona così tanto uno dei momenti cardine, quello tra Churchill e il popolo in metropolitana. Tutto il film fino a quel punto ha tenuto la finzione e l’implausibilità tipica del cinema a bada, ha sovraccaricato la messa in scena ma lasciando intuire la plausibilità degli eventi, a quel punto invece decide di mettere entrambi i piedi nella propaganda e nell’ideologia, mandando a monte il lavoro di fino fatto.