La memoria dell'assassino, la recensione
Ci sono i killer in La memoria dell'assassino, ma è solo l'intreccio, il film è una grande contemplazione dell'idealizzione dell'essere uomini
La recensione di La memoria dell'assassino, il secondo film diretto e interpretato da Micheal Keaton, nei cinema dal 4 luglio.
Knox lotta contro il tempo e contro sé stesso, aiutato dal boss che è anche amico (un perfetto Al Pacino, grottesco ma affidabile), in un mondo in cui contano davvero solo gli imperativi morali, quelli aderendo ai quali si può dire di essere uomini nel senso pieno del termine. Non c'è da farsi ingannare: il mondo criminale è solo un pretesto, questo non è un film di polizia e gangster, ma uno in cui un uomo tira le somme della sua vita. L’intreccio ad alto rischio serve a dare tensione, quello che conta sono le rese dei conti con le persone vicine, chi sta dalla parte del protagonista e chi lo tradisce per interesse, di chi ci si può fidare e chi no, e che decisioni vanno prese per fare le cose per bene.
La memoria dell’assassino è quindi un eccezionale manifesto non tanto di una visione del mondo, ma dell’idealizzazione di un mondo: quello degli uomini di una volta, come vengono solitamente intesi (ammesso e non concesso che siano mai esistiti), in cui far brillare una versione tutta d’un pezzo del concetto di umanità, in modo da enfatizzare il lato romantico e perduto del disincanto. Nessuno in questo film sembra credere nemmeno per un momento che le cose potranno risolversi, ma nondimeno sanno che essere onesti con sé stessi e quindi provarci è molto, ma molto più importante di cose triviali come sopravvivere o non finire in galera.