Cannes 70: Fortunata, la recensione
Povera, passionale e bisognosa d'amore, Fortunata vive tra un film di Pasolini e uno di Matarazzo suonando sempre troppo kitsch per il presente
Umanità di estrema periferia, popolarissima e sguaiata, violenta ma passionale nell'afosa e appiccicosa estate romana, che vive accanto all’acquedotto e cammina nella notte con carrelli all’indietro come in Mamma Roma. Rumorose e piene di problemi Fortunata e sua figlia finiscono da uno psichiatra infantile (Accorsi) che finirà ad analizzare oltre la bambina anche la madre con inevitabile ricaduta sentimentale che finirà di incasinare tutto, trascinando i personaggi verso il gran finalone melodrammatico e a tinte fortissime, tra pistole, pianti e avvocati.
Fortunata vuole avere lo sguardo sui personaggi di Pasolini, unito al senso del melodramma classico e dei suoi adorabili luoghi comuni dei film di Raffaello Matarazzo, in più non teme mai il ridicolo nel proporre una storia e degli svolgimenti oggi molto fuori tempo. La grande poesia negli occhi e nelle bocche di personaggi di borgata, le fughe d’amore idilliache al porto di Genova, i sorrisi lieti ed innamorati che preludono alla tragedia e un miserabilismo esasperato sono ciò che una volta reggeva i modelli di questo film ma oggi, almeno per come li porta Castellitto, sembrano inaccettabili.Non è che sia scritto male Fortunata e del resto nemmeno è interpretato male (anzi!), è che sembra non rendersi conto che nel suo osare di fare qualcosa che nessuno oggi fa più, mostra perché non venga fatto. Perché una storia messa in scena con questa voglia di realismo ma così idealizzata in dialoghi, aspirazioni e volontà poetica è impossibile, non regge il patto finzionale, non suona autentica, non riesce a dire nulla se non le proprie voglie.