[Cannes 2016] Ma Loute, la recensione
Troppo conscio di sè e del suo piacere, troppo voglioso di lisciare il pelo al suo pubblico, Ma Loute perde tutta la forza che P'tit Quinquin aveva liberato
La prima cosa che si nota è l'indubbia consapevolezza dell'operazione, se P'tit Quinquin suonava originale e selvaggio, un film con umorismo puro e partorito di getto, questo Ma Loute, pieno di star (Valeria Bruni Tedeschi, Fabrice Luchini e Juliette Binoche) ne è la sua caricatura enfatica, la sua versione potenziata. Ogni attore esagera, plasma un personaggio eccessivamente ridicolo, cerca posture folli, risate malate e forzature espressioniste che somigliano più al teatro o (peggio!) all'avanspettacolo che al cinema. Certo l'umorismo non manca ma non ha quella vena inattesa che tanto aveva impressionato nel film precedente, è più meditato è studiato. Un commissario grasso che rotola per guardare le prove, una dama che insulta i camerieri, una zia eccessiva in tutto e una ragazza che si veste da uomo, sono animali da circo e non freak di provincia.
Dumont guarda i nobili con prevedibile disprezzo e i vongolari con benevolo rispetto. Solo questo basterebbe a spiegare uno sguardo accomodato e accomodante, pronto per essere approvato e per piacere a chi deve. Il contrario di Quinquin che dello schifo nei confronti di tutti faceva una delle sue molte armi comiche e spiazzanti. Non è per questo difficile affermare che Ma Loute è la versione accomodante di P'tit Quinquin, più ruffiana e calcata, come una barzelletta raccontata per la seconda volta calcando sugli elementi che già si sa essere i più efficaci.