A casa tutti bene - La serie (prima stagione): recensione dei primi sei episodi
A casa tutti bene - La serie dimostra che con più spazio a disposizione Gabriele Muccino non si annacqua, ma si moltiplica
Chi l’avrebbe detto che Gabriele Muccino avrebbe immediatamente trovato nelle serie TV lo spazio ideale per portare il suo cinema all’estremo? Quello basato sui rapporti famigliari intricatissimi, tante storie incrociate che deflagrano in una miriade di altre relazioni. Urla, sudori, rappacificazioni per interesse, e ancora tensioni in crescendo che per lo spettatore hanno lo stesso gusto action di un bomba che ticchetta sotto un tavolo. A casa tutti bene - La serie, è il reboot dell’omonimo film che se ne distanzia, ma ne condivide l’idea creativa, il cuore emotivo, espandendolo nell’arco di molte ore.
Da questi due poli si origina un albero genealogico complicatissimo da gestire, sia da chi riceve le informazioni, che da chi le dà. Muccino lo sa bene ed ha un talento indiscusso nella gestione delle parentele. Per questo dedica nell'episodio pilota della serie un ampio spazio al continuo ripetersi di nomi e legami di sangue e affettivi. Eppure, lontana dall’essere uno spiegone, la prima ora di questa serie è tutto ciò che di meglio ci si può aspettare: inizia con una normale festa per celebrare il padre e il ristorante che dà sostentamento a gran parte dei presenti. Basta poco, la scontrosità di Pietro (l’ottimo Francesco Acquaroli) per intuire che qualcosa non andrà per il verso giusto.
Non è però semplice affezionarsi a questa famiglia di ricchi sfondati, che ricevono tutto senza guadagnarsi mai niente. L'unico sollievo è quando l’attenzione si sposta verso Laura, il personaggio interpretato (con grande dignità) da Emma Marrone. Appartiene indirettamente al ramo dei Mariani dato che aspetta un figlio da Riccardo, figlio della sorella di Pietro, sommerso dai debiti di gioco. La loro è la linea di trama che filtra con il film di mafia, ma che aiuta anche a “mettere a terra” i tanti problemi dell’alta borghesia.
A casa tutti bene cattura con le sue premesse che sembrano più un film breve che l’inizio di una serie di 8 episodi. Salvo poi, dal secondo episodio in poi, rallentare. La prima ora è senza respiro, poi invece si tira il fiato, forse anche troppo. Avere più tempo a disposizione non è uno strumento per approfondire le psicologie, ma per intrecciare ancora di più i drammi.
È sorprendente quindi che A casa tutti bene sia un in tutto e per tutto un film di Muccino al cubo. Se però il primo episodio ne guadagnava per intensità, il resto rischia di allontanare chi non ha famigliarità con lo stile del regista, appagando però totalmente i suoi ammiratori.
La sigla, cantata da Lorenzo Jovanotti, inizia con una penna intrisa di sangue che fa da puntina a un giradischi lasciando una scia rossa. Un’immagine che la racconta molto bene. Tutto gira intorno a una storia di sangue, che intuiamo solo in superficie man mano che si svela attraverso piccoli flashback. E soprattutto ruota. Si corre continuamente dietro a tutti. Non siamo però noi a girare intorno ai personaggi, come fa il movimento di macchina simbolo della sua filmografia, ma questa volta l’effetto è che sia un girotondo di caratteri a metterci al centro della scena.
Manca purtroppo alla serie un lavoro sulla portata drammatica, sempre sparata a mille e poco soppesata. Ci si ritrova quindi affaticati sul lungo periodo, come se si ascoltasse per tante ore la musica a un volume altissimo. A casa tutti bene è infatti così intriso dal dramma che spesso si fatica a viverlo concretamente sulla pelle.
L’oggetto del contendere, ovvero il ristorante, è mostrato con grande carnalità nel suo essere luogo. La gente mangia, beve, ma anche fa l’amore nelle sue stanze che cambiano, vengono distrutte, e vedono innumerevoli lacrime. È un peccato che si disinteressi ai discorsi che i personaggi fanno di quello spazio non solo come contenitore di ricordi, ma come potenziale economico.
Come in una serie in cui eredi al trono si contendono la corona, o in cui bei giovani combattono per l’amata, qui i coltelli stridono per prendere il possesso dell’azienda di famiglia. A Muccino non interessano i consigli di amministrazione, gli sgambetti interni tra i contendenti delle quote societarie. Per lui hanno fascino i sentimenti irrazionali. Ed è un peccato, perché anche quello sarebbe potuto essere uno strumento di lotta acuto e appassionante. Invece tutti quei momenti scorrono veloci, per ritornare sulle sofferenze personali. Alcune sono ben plasmate altre, come quella di Sandro Mariani (Valerio Aprea) malato di Alzheimer, appaiono troppo slegate.
La qualità è altalenante, con trovate riuscite come qualche cliffhanger tra episodio ed episodio ed altri più ingenui, come la gestione dei due bambini che talvolta sembrano incredibilmente adulti altre volte agiscono d’impulso sempre fuori da quello che ci si aspetterebbe alla loro età.
Eppure guardando A casa tutti bene - La serie, è chiaro che la prova registica di Muccino si può dire superata, sebbene senza un trionfo. Non conquisterà certo un pubblico nuovo, ma ha dimostrato ai suoi seguaci che con più tempo a disposizione il suo cinema non si annacqua; si moltiplica.