Il muro di 60.000€ che Holy Shoes si trova davanti

Nell'intervista Luigi Di Capua spiega la fatica necessaria per riuscire a far produrre Holy Shoes e cosa serve perché il secondo film

Critico e giornalista cinematografico


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Luigi Di Capua parla di come ha proposto la sceneggiatura di Holy Shoes, messo insieme la troupe, girato quattro storie e come ora aspetta il box office per fare il secondo film

Dopo essere passato al Festival di Torino, sebbene non in concorso e nonostante fosse un'opera prima, arriva questa settimana al cinema Holy Shoes, il debutto alla regia di Luigi Di Capua.

Di Capua è emerso insieme a Luca Vecchi e Matteo Corradini come parte del collettivo ThePills, in cui era attore e sceneggiatore. Poi ha lavorato per diversi anni come sceneggiatore nel cinema italiano, prendendo parte a Smetto quando voglio: Masterclass e Smetto quando voglio: Ad Honorem, Sono solo fantasmi, C'era una volta il crimine e la serie Bang Bang Baby.

Holy Shoes è un alieno rispetto alla produzione italiana, specialmente rispetto agli esordi: è centrato su un modello di scarpe molto costoso (inventato) e muove diversi personaggi a partire dal desiderio di possesso per quelle scarpe.

Hai tenuto per te un paio di scarpe del film?

"Sì, l'ho chiesto alla costumista. Ne abbiamo fatte solo cinque paia."

Come le avete ideate?

"È stato complicato. Le abbiamo ideate con uno studio che fa sneakers a Milano, RAL7000. Le indicazioni che avevo dato alla costumista Antonella Mignona erano: qualcosa che appartenesse al passato delle scarpe, qualcosa di una possibile evoluzione futura. Dovevano essere senza lacci, in modo che fossero il più possibile non terrene, che avessero delle qualità mistiche, un elemento linguistico di simulacro di totem."

Ma c’è un referente reale?

"Quando scrivevo pensavo alle Balenciaga Triple S, che a un certo punto sono andate molto di moda, un paio di scarpe orribili che costavano letteralmente 790/800 euro. Si vendevano anche da noi, le compravano i ragazzini, in un paese in cui lo stipendio medio è di 1400 euro. Com’è possibile? Questo ha creato in me l’idea del film."

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Sei un esordiente ma non nuovo al mondo dell’audiovisivo. Per questo primo film ti sei portato dietro qualcuno con cui avevi già lavorato, a parte Luca Vecchi in sceneggiatura?

"No. In realtà, quando fai lo sceneggiatore non incontri molte persone e io non vengo dai cortometraggi né dai videoclip. Parte del gruppo della troupe l’ho rubato a Lettieri. Per il resto sono partito da zero."

Non tanto da zero, hai comunque fatto video per anni con The Pills. È stata un’esperienza utile per l’esordio?

"Molto per la gestione del set e dei collaboratori, ma per tutto il resto no. Ti faccio un esempio: gli attori. Quando facevamo video con ThePills, gli attori che non eravamo noi entravano automaticamente nel nostro mondo e si adattavano. Diverso è invece lavorare con gli attori alla creazione di un mondo. Guarda, alla fine fare film è una cosa che ho dovuto imparare veramente da zero."

Due comparti mi hanno stupito molto: la musica di Federico Bisozzi e il montaggio di Julien Panzarasa. Mi ha stupito sia la loro natura che il modo in cui lavorano nel film.

"Fare film è comunque sempre creare dei mondi, anche se li ambienti oggi a Roma. La musica è un ulteriore elemento di lettura, dà un punto di vista. Visto che si parla molto di questioni materiali, mi piaceva usare una musica che puntasse al sacro. E poi non volevo uno della vecchia guardia, volevo qualcuno che condividesse i miei riferimenti."

È abbastanza evidente in molti punti che un riferimento per ritmo, montaggio e missaggio sonoro è Diamanti grezzi.

"Sì, un po' di quell'elettricità la volevo e il montaggio sicuramente contribuisce. È tipico delle opere prime, no? Essere un po’ derivative. Prendi le cose che ti piacciono, le raccogli tutte insieme e le metti dentro. E di Diamanti grezzi mi piace quella dimensione profondamente irrealistica."

Era l'unica idea con cui volevi esordire o ne avevi delle altre?

"L'unica. Avevo scritto la sceneggiatura senza avere la produzione e la portavo io ai produttori, non la inviavo, la portavo personalmente dentro una scatola di scarpe."

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Facevi il marketing della tua sceneggiatura?

"Esatto! Sono ostinato ma non è stato un momento facile, non godevo di grande credibilità pregressa per The Pills e mi presentavo con il lavoro di sceneggiatore. Avevo scritto tutta la sceneggiatura senza avere un produttore, per non presentarmi solo con il soggetto. Ero fiducioso, la tematica del rapporto con gli oggetti di consumo è abbastanza inedita e trovo profondamente pop la scarpa. L'idea mi è venuta quando ho capito che da noi non c’è un racconto della sneaker culture e quindi è un'idea abbastanza originale. Poi a me le idee che piacciono di più sono quelle che dialogano con la società. Questo è quello che mi porto da The Pills: il satirico e il graffiante."

Qual era la difficoltà che incontravi con i produttori?

"Non si aspettavano questo tipo di film da me, si aspettavano un’idea più semplice."

Ti dicevano: “Ma perché non fai una bella commedia con Edoardo Leo?”?

"Più o meno. C’è chi me l’ha chiesto direttamente. Temono sempre che tu non sappia girare un film perché ancora non ne hai girato uno e questo era complesso: quattro storie diverse con personaggi diversi e ambienti diversi. Tornando indietro forse non esordirei con un film così... Quattro storie e quattro mondi da controllare sono troppi. Due sarebbe stato meglio, ma ci tenevo molto a raccontare personaggi diversi che abitano lo stesso luogo senza incontrarsi ma solo incrociarsi blandamente, influendo un po’ nelle vite degli altri senza saperlo."

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Sei il tipo che è molto aderente alla sceneggiatura o quello che si adatta?

"Guarda, la magia del cinema sta nel fatto che questa è l'unica forma d'arte che non è controllabile al 100%. Cioè, puoi scrivere il tuo libro in cameretta tua fino a quando non è come vuoi. Nel cinema c’è un elemento insondabile, il fatto che poi a un certo punto si creino delle cose non previste, sia nel bene che nel male. Alcuni personaggi hanno preso una forma più compiuta (come quello di Denise Capezza) e una scena come quella della corsa di Filippo Torre con dietro i graffiti colorati che si mescolano è stata una sorpresa, non l’avevo prevista e mi è parsa una delle immagini più potenti del film. L'avrei lasciata per cinque minuti, è uno dei pochi momenti in cui sento che il film c’è."

E ora, c’è un risultato che il film deve raggiungere per consentirti di farne un secondo?

"Se incasso almeno 60.000 euro, questo mi fa punteggio per l’assegnazione di fondi ministeriali per un eventuale secondo film. Altrimenti è molto più difficile."

Intanto continui a lavorare come sceneggiatore?

"No, adesso sto scrivendo solo le mie cose. Sto scrivendo una serie e un altro film."

La serie ha già un canale?

"Sì, ma non c’è niente di deciso, solo un interesse."

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Se non incassi i 60.000 euro che servono, ti fermi?

"Impossibile. Ho pronte idee per film a qualunque budget e qualunque grandezza. Due a budget bassissimo proprio. Non esiste fermarsi, un regista deve poter e saper lavorare a qualsiasi budget."

Tipo?

"Una storia che sto scrivendo si chiama Argentario. È quello che il titolo fa immaginare, una storia ambientata dall'Argentario come luogo metafisico del privilegio. Vorrei raccontare un sentimento contemporaneo: il bisogno di vincere e la paura del fallimento che possiede questo momento storico. Chi si rivolge ai Bitcoin per guadagnare, quelli del mindset vincente e via dicendo. Tutti figli di una società che ti spinge a cercare di farcela e disprezza i perdenti. È la storia di un ragazzo che lentamente cerca di entrare all'Argentario, sempre inteso come luogo metafisico, ed è ambientato tutto in un paio di ville."

Comunque non una commedia.

"No, o almeno non come l’ho fatta finora. Il faro sono I Simpson: un elemento di commedia, un elemento di profonda satira e uno di grande emotività. Quindi un equilibrio tra commedia e dramma."

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