Vi raccontiamo la Nordic Game 2018

La Nordic Game è una fiera dedicata alle produzioni videoludiche di Norvegia, Svezia e compagnia (ma non solo). Il resoconto dell'edizione 2018

Condividi

Giunta quest’anno alla sua quindicesima edizione, la Nordic Game Conference è una fiera piuttosto particolare. Da un lato, segue il modello di tanti altri eventi simili sparsi per l’Europa e il mondo, che poi sarebbe quello di una Game Developers Conference in miniatura, con un piccolo spazio espositivo, incontri di business, competizioni per giovani sviluppatori e una lunga serie di conferenze, seminari, tavole rotonde e workshop mirati alla condivisione e alla divulgazione sul fronte dello sviluppo e della produzione di videogiochi. A distinguerla davvero, però, c’è il fatto di essere nata come evento focalizzato sulla scena locale e sul successo sempre maggiore dei vari studi nati nei decenni fra Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia. Nel corso degli anni, quello che amichevolmente viene chiamato Nordic Game è diventato sempre più internazionale e ha potuto per esempio vantare, nelle edizioni 2016 e 2017, ospiti d’onore del calibro di Hideo Kojima e Fumito Ueda. Ma l’attenzione al settore locale e al suo sviluppo rimane grande, con tanto di cerimonia di premiazione per i migliori giochi nordici dell’anno (al contrario, per esempio, degli Italian Video Game Awards, che premiano giochi da tutto il mondo e dedicano alla produzione locale due categorie apposite).

Alla cerimonia, che come al solito si è svolta sul finire della seconda giornata (su tre) di fiera, ci si potrebbe aspettare di vedere spazzolare via tutto ogni volta dagli studi di maggior prestigio come DICE o Remedy, ma non va sempre così. Quest’anno, per esempio, ha trionfato Echo, dei danesi Ultra Ultra, portandosi a casa i premi per il miglior debutto, il miglior game design e il gioco dell’anno. E in scia c’era Little Nightmares, degli svedesi Tarsier Studios, premiato per l’audio e la grafica. Per la miglior tecnologia ha vinto Sparc, degli islandesi di CCP, mentre Passpartout: The Starving Artist (Flamebait Games, Svezia) ha vinto come miglior gioco casual, Steamworld Dig 2 (Image & Form, Svezia) come miglior gioco portatile e a Wolfenstein II: The New Colossus (MachineGames, Svezia) è andata la menzione speciale della giuria.

[caption id="attachment_185664" align="aligncenter" width="1920"]Nordic Game 2018 Tutti i vincitori assieme sul palco[/caption]

Ma i premi grossi non costituivano l’unica competizione in ballo. C’era infatti anche l’interessantissimo Discovery Contest, una competizione in cui piccoli sviluppatori indipendenti da tutta Europa, qualificatisi gareggiando in altre tredici fiere sparse per il continente (per oltre quattrocento partecipanti totali), dovevano esibirsi in pitch, vere e proprie presentazioni del proprio gioco, come se stessero cercando investitori, per essere poi giudicati da una giuria. Fra i partecipanti c’era, tra l’altro, anche Close to the Sun, survival horror dallo stile bioshockiano degli italiani Storm in a Teacup, ma a vincere è stato Yaga, il GdR di Breadcrumbs Interactive (Romania) basato sul folklore slavo. E allo studio vincitore andavano una serie di premi piuttosto significativi offerti dai vari sponsor, per esempio una campagna marketing e uno spazio in homepage su Steam. Tutti i giochi in competizione potevano essere provati in fiera (e votati per l'assegnazione del premio del pubblico), oltre ad altri titoli indie che si sono aggiunti nell'ultima giornata.

Fra i tanti, mi sono divertito parecchio con Bossgard, un gioco di battaglie in arena nel quale un giocatore interpreta il ruolo del boss e gli altri (fino a cinque) sono gli eroi vichinghi che devono abbatterlo. In particolare, è notevole il modo in cui cambiano completamente le dinamiche a seconda del boss selezionato. Promettente anche Pode, nonostante uno stile visivo forse non di grande personalità: è un puzzle game giocabile anche in cooperativa, nel quale si controllano due personaggi in grado di far crescere piante e formazioni di cristalli attorno a loro, ma dotati anche di altre abilità. Ogni stanza contiene una serie di enigmi da risolvere, ben congegnati e tutt'altro che semplici. E ancora Robbotto, sorta di omaggio a Bubble Bobble, soprattutto nella struttura a livelli singoli e nel design estetico, nel quale si controllano dei robottini che devono abbattere creature meccaniche stordendole con l'elettricità e mandandole poi in corto circuito con un getto d'acqua. Old school, impegnativo e molto divertente. Wunderling, invece, fa vestire i panni di un nemico standard da platform game (tipo i goomba di Mario) in una specie di endless runner su livelli tutto incentrato su morti a ripetizione e segreti da scovare. Davvero divertente e con un ottimo level design, anche se forse, pure qui, sul piano estetico non è molto accattivante. Spendiamo infine due parole per The Ballad Singer, sorta di librogame digitale senza alcuna concessione al gameplay action, incentrato quindi solo sulla narrazione e sulle scelte affidate al giocatore. Sviluppato da un team italiano, propone quattro protagonisti che, in stile David Cage, possono morire senza che per questo diventi impossibile giungere al finale (o, meglio, a uno dei quaranta finali). La demo era brevissima, quindi difficile da giudicare, ma le illustrazioni non sono niente male e potenzialmente potrebbe venirne fuori qualcosa di interessante.

Ma, si diceva, Nordic Game è anche un luogo di discussione, informazione, accrescimento su tutto ciò che è sviluppo e produzione di videogiochi. A lungo, nei tre giorni di fiera, si è scherzato sul fatto che molti interventi erano incentrati sul blockchain e su come monetizzarlo. Ma del resto, quello del prendere in giro le conferenze focalizzate sui metodi di guadagno è un po' un tormentone, per questo tipo di eventi. Ci sono però stati molti talk interessanti, anzi, pure troppi, tant'è che è capitato di dover fare dure scelte e saltarne alcuni che non avrei voluto perdere per stare dietro ad altri o, magari, per non mancare appuntamenti. Ma insomma, in questo genere di fiere va sempre così. Il primo giorno ha visto salire sul palco i dirigenti di alcuni grossi studi della regione, fra cui per esempio Remedy e IO Interactive, per chiacchierare dello stato delle cose, dei motivi per cui i paesi nordici hanno storicamente avuto successo nel settore e di come si potrà andare avanti. In generale, è emersa la convinzione che contino tantissimo la cultura del lavoro, la diversità, la libertà comunicativa che permette a chiunque di esprimere idee ed essere ascoltato, a prescindere dal suo ruolo nello studio, e sia grazie a questo e alla tipica attenzione per il dettaglio, se i giochi nordici riescono spesso a distinguersi. Aiutano anche la forza crescente dei poli universitari e le storie di successo di studi come Rovio, che spostano l'opinione pubblica e rendono più facile trovare investitori. Ma, per quanto la situazione sia anni luce avanti rispetto per esempio a quella italiana, non è tutto rose e fiori, se è vero che agli studi danesi o norvegesi capita di dover richiedere investimenti a banche svedesi perché non se ne trovano in patria.

Un momento interessante e divertente ha visto salire sul palco Josef Fares (Brothers: A Tale of Two Sons e A Way Out) che, intervistato da Mike Gamble di Epic Games, ha chiacchierato del suo approccio allo sviluppo e del suo essere passato dal cinema al videogioco. Con quel fare sicuro di sé e sempre scherzoso, un po’ in stile Ibrahimovic, che probabilmente avete ammirato ai Video Game Awards ("in mia difesa posso dire che il pubblico mi incitava"), Fares ha spiegato che ritiene i videogiochi un mezzo potentissimo per raccontare storie e pensa che la pratica della narrazione tramite l’interattività sia appena stata sfiorata. C’è ancora tanto da esplorare. Ha sottolineato che pretende sempre controllo creativo assoluto sui suoi giochi e ha dato atto a EA di non aver mai messo becco su A Way Out, nonostante l’idea fosse considerata rischiosa. E ha parlato del suo cruccio più grande: la gente non finisce i videogiochi, bisogna snellirli, evitare il brodo allungato, mantenere l’esperienza interessante. A Way Out è stato finito dal 55% dei suoi giocatori e questo, nel settore, viene considerato un risultato eccellente. "Pensate se il 50% della gente che andava a vedere Avatar fosse uscito a metà film e James Cameron l'avesse preso come un ottimo risultato. Surreale, no?"

[caption id="attachment_185665" align="aligncenter" width="1920"]Nordic Game 2018 Una chiacchierata davanti al caminetto con l’umile, arrogante, fiducioso Josef Fares. O, perlomeno, lui si definisce così[/caption]

Interessante anche l’intervento di Angie Smets, produttrice esecutiva di Guerrilla Games, che ha raccontato del non banale passaggio da un decennio di lavori su Killzone alla creazione di una nuova IP completamente diversa, incentrata sull’open world e su un approccio molto più solare all’ambientazione di gioco. Sto ovviamente parlando di Horizon: Zero Dawn, che ha richiesto sette anni di lavoro, ha visto il team tentennare a più riprese, chiedersi se fosse la scelta giusta, vacillare di fronte all’uscita dell’apparentemente simile Enslaved: Journey to the West ma imboccare comunque la sua strada perché era un progetto in cui credevano troppo. E allora, mentre il team principale si occupava di Killzone: Shadow Fall (bisogna campare!), un piccolo manipolo di eroi sviluppava le nuove idee e creava prototipi. È stato un lungo cammino, che ha visto anche cambi di direzione nettissimi quando si sono resi conto che le cose non funzionavano, portando a un gioco in larghissima misura diverso da quello inizialmente pianificato, ma che, nonostante le classiche opposizioni stile "guardate che i giochi con protagoniste donne non vendono!" ha dato vita al maggior successo nella storia di Guerrilla, con quasi otto milioni di copie vendute in un anno (Killzone non ha mai superato i quattro milioni).

John Watson (direttore tecnico) e Zeb West (produttore) di Stoic hanno invece affrontato il volo transoceanico per raccontare a grandi linee il viaggio che li ha portati dalla campagna Kickstarter originale alla pubblicazione ormai imminente del terzo episodio di The Banner Saga. E, in un certo senso, ne è venuta fuori l'idea di uno studio sì americano, ma organizzato alla scandinava: grande elasticità, capacità di adattamento all'evoluzione delle necessità lungo la creazione della trilogia, passando magari dal lavoro in remoto all'acquisizione di veri e propri uffici, attenzione all'importanza della community e di nuovi modi per comunicare con essa, a cominciare da Discord. Siobhan Reddy, studio director presso Media Molecule con a curriculum anche giochi come Discworld Noir e i vari Burnout, ha invece proposto un intervento molto sentito per dire la sua su quanto sviluppare videogiochi sia, sostanzialmente, una cosa bellissima e un bagno di sangue allo stesso tempo. E con lei ancora una volta si è parlato di quanto sia importante la diversità (di sesso, etnia, cultura, religione, età… ) in un team, per offrire prospettive e punti di vista differenti. Un tema sicuramente sentito, emerso in parte anche nell'intervento di Robin Hunicke di Funomena (Journey il diamante nel suo curriculum), che ha offerto la sua prospettiva sul futuro del settore anche da un punto di vista di sfruttamento delle tecnologie: il modo in cui la VR sta spostando il game design verso la creazione di esperienze anche molto lontane dai cliché storici, l'importanza di comunicare i temi su cui si vuole spingere non attraverso la narrazione ma tramite i sistemi di gioco, il desiderio di creare intelligenze artificiali che siano davvero in grado di osservare il comportamento del giocatore e reagire di conseguenza, offrendo anche risposte emotive, improvvisando. Tutte cose che si vedono spesso nel lavoro di ricerca universitaria ma faticano ad emergere nei videogiochi commerciali.

[caption id="attachment_185666" align="aligncenter" width="1920"]Nordic Game 2018 La Nordic Game si svolge sempre al Slagthuset di Malmö (Svezia), un ex impianto per l’impacchettamento di carne trasformato in hall per concerti e fiere[/caption]

In una fiera percorsa da un clima di affetto, collaborazione, ottimismo, voglia di far evolvere il settore, è emersa come momento di depressione quasi clinica la tavola rotonda che ha coinvolto John Gaudiosi di Shacknews, Jordan Devore di Destructoid e Simon Parkin (Eurogamer, The Guardian, The New Yorker), impegnati a chiacchierare di quanto e come sia cambiata la stampa specializzata negli ultimi anni. Un tema interessante emerso è quello dell'evoluzione positiva a cui l'emergenza di YouTube e degli influencer ha spinto le pubblicazioni tradizionali (certo, mentre le metteva in enorme difficoltà), che da un lato non hanno certo abbandonato i contenuti classici a base di anteprime, recensioni o soluzioni, ma dall'altro hanno dovuto riscoprire l'importanza del giornalismo investigativo (o, semplicemente, del giornalismo, mi verrebbe da dire). Articoli d'inchiesta, indagini approfondite, riflessioni in formato lungo sono diventati sempre più importanti per far distinguere una testata, darle personalità e garantirle successo. Il rovescio della medaglia, però, sta nel fatto che pochi al mondo possono davvero permettersi di puntare molto su quel genere di giornalismo, perché nel settore i fondi scarseggiano e inchieste come quelle di Jason Schreier (Kotaku) richiedono anche due o tre mesi di lavoro. Un freelancer non può certo guadagnarsi da vivere lavorando così e le pubblicazioni che possono permettersi di assegnare un membro dello staff a un singolo contenuto per così tanto tempo non sono esattamente molte. Il settore è contratto, il talento fugge – le storie di giornalisti trentenni che passano allo sviluppo sono all'ordine del giorno – e diventa difficile andare avanti. Come battuta fra i denti, in mezzo a considerazioni ben più serie e consigli per i giovani aspiranti giornalisti specializzati, Devore ha buttato lì un "sposa qualcuno che guadagni bene". Scherzava, ma neanche troppo.

[caption id="attachment_185667" align="aligncenter" width="1920"]Nordic Game 2018 Una costante della fiera è il costante, appunto, afflusso di birra elargita agli avventori. Considerando che tipicamente si manifesta nel tardo pomeriggio, cogliendoti stanco morto e a stomaco vuoto, il disastro è sempre dietro l'angolo[/caption]

Interessante anche l'intervento di David Fugère-Lamarre, che ha raccontato come il suo studio iLLOGIKA, specializzato nei progetti su commissione, sia stato coinvolto nello sviluppo di Cuphead e abbia collaborato con MDHR. Il primo contatto è avvenuto perché i fratelli Moldenhauer cercavano aiuto per la programmazione della versione Xbox One e iLLOGIKA ha finito poi per lavorare su tutto ciò che potremmo considerare noioso e particolarmente impegnativo sul piano temporale: ottimizzazione, gestione della memoria, implementazione della localizzazione, tutorial e un po' tutto quel che viene fatto verso il termine dei lavori. In particolare, è stato complesso il lavoro di ottimizzazione su PC, considerando che l'appeal estetico del gioco attirava un grande pubblico, intenzionato spesso a farlo girare su laptop di fascia molto bassa. Stipare quella grafica in due soli giga di RAM non è stato facile: hanno dovuto separare gli sprite in base ai livelli per far caricare al gioco solo quelli necessari, hanno gestito la musica in streaming invece di farla caricare in memoria e hanno insomma utilizzato tanti trucchetti del genere. Nota di colore: non hanno mai incontrato i Moldenhauer per tutto lo sviluppo, comunicando sempre tramite Slack, ed è stato difficile beccarli anche dopo l'uscita, perché erano sempre in giro per il mondo a ritirare premi.

Chris Remo, designer e compositore presso Campo Santo, ha raccontato invece alcune dinamiche dello sviluppo di Firewatch, un gioco completamente incentrato su un tizio che se ne va in giro chiacchierando alla radio, e che quindi doveva avere un sistema di dialogo molto studiato. Il modello di partenza era quello di The Walking Dead, su cui del resto parte del team aveva lavorato ai tempi di Telltale Games, ma da lì ci si è evoluti in una direzione differente, creando non un gioco in cui non sono le scelte di dialogo a definire il personaggio e c’è invece un protagonista dalla caratterizzazione forte fin dal primo istante. Rispetto ad altri giochi narrativi in prima persona, poi, Firewatch si è distinto mirando a raccontare una storia presente, che ha sempre al centro il suo protagonista. Non si gioca facendo gli archeologi di storie altrui come in un Gone Home, insomma. Interessante anche il discorso fatto nel tentativo di applicare alcune tecniche di montaggio cinematografico al gioco, per esempio nel modo in cui alcune giornate si chiudono all’improvviso, lasciando un po’ appeso il giocatore, ma anche nell’impossibilità di costruire un vero e proprio montaggio veloce di stampo cinematografico fra i diversi giorni, perché bisogna per forza dilatare ai tempi per permettere a chi gioca di capire cosa stia accadendo e muoversi negli ambienti. In generale, ne è venuto fuori il ritratto di un gioco dalle dinamiche e dalle meccaniche molto più studiate e ragionate di quanto i detrattori possano pensare, i cui sviluppatori riconoscono però di non essere stati bravi a suggerire a sufficienza il grado di libertà possibile. Firewatch, insomma, è un gioco lineare, ma meno di quanto sembri.

[caption id="attachment_185668" align="aligncenter" width="1920"]Nordic Game 2018 La sera della seconda giornata, dopo le premiazioni e la cena di gala, scatta la festa e scatta, immancabile, il Marioke, un karaoke in cui le hit più famose vedono i testi cambiati a tema videoludico. Delirante e divertentissimo[/caption]

Chiudiamo con due parole sul divertente intervento di Jon Kimmich, CEO di Software Illuminati, che ha raccontato di quando lavorava in Microsoft Games Studios e si occupava di valutare progetti e studi da acquisire, sfruttando alcune sue esperienze come esempi per spiegare agli sviluppatori in sala quali siano i modi migliori di proporsi a un publisher. Pensate che DICE inviò il prototipo di Battlefield 1942 a Microsoft e Kimmich ne fu entusiasta, ma il multiplayer non funzionava. Disse quindi al team svedese di farsi risentire con un prototipo più avanzato. Quando inviarono una versione in cui il multiplayer faceva il suo, non lo mandarono direttamente a Kimmich, finì nelle mani di un suo collega che non apprezzò e il resto è storia: quasi vent’anni dopo, Battlefield è un franchise colossale di Electronic Arts.

A cura di Andrea Maderna

Continua a leggere su BadTaste